"Ovvi destini" di Filippo Gili in scena a Roma

Vanessa Scalera, Anna Ferzetti, Daniela Marra e Pier Giorgio Bellocchio soldout in teatro. Karma o destino?

foto di scena di AGNESE RUGGERI
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22 Marzo 2022 - 09.30


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di Alessia de Antoniis

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Ovvi destini, anticipato al teatro Tor Bella Monaca dove ha registrato due date soldout, sarà in turnée fino al suo rientro a Roma al Sala Umberto dal 3 al 15 maggio.

Tre sorelle. Laura la primogenita, Lucia la seconda, Costanza la più piccola: sui trentacinque, chi più chi meno. Costanza è su una sedia a rotelle per colpa di un incidente provocato un paio d’anni prima da Laura, la maggiore. Ma né Costanza né Lucia conoscono la disgraziata responsabilità di Laura. Loro no, ma la conosce uno strano essere, Carlo, che comincia a ricattare Laura, incallita giocatrice d’azzardo. “O dici a tua sorella che due anni fa fosti te, non vista, a fare quel balzo che costò le gambe di tua sorella, o tutti i proventi delle tue vincite li prenderò io”. Questo il ricatto di Carlo che, però, offrirà anche un dono: la possibilità di esprimere un desiderio.

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Filippo Gili torna a giocare col destino e con la morte. Lo fa nel suo stile, con un testo inquietante dai ritmi sostenuti, facendoci scivolare in un falso piano mentre camminiamo lungo il sentiero delle incertezze e dell’inconfessabile.

Tre sorelle, tre vite, tre sedie: una è a rotelle. Tre sorelle infelici. Tutto inizia attorno a una tavola apparecchiata. Condividere i pasti è un antico modo di conversare: anche Dante scrive il suo Convivio, dove i commensali possono cibarsi del sapere.

Una conversazione familiare, dal linguaggio a tratti sboccato, a volte trattenuto, con una crudeltà che si cela anche in semplici giochi di parole. Le tre sorelle parlano di fato, di karma, di “ovvio destino”, come il nome dato per gioco al piatto cucinato da Laura: un tacchino vittima di un ovvio destino.

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Ovvio, dal latino ob viam, davanti alla via, che ci taglia la strada. Il destino come qualcosa che ci viene inesorabilmente incontro o al quale andiamo incontro. Possiamo decidere oppure no? L’unico ovvio destino, paradossalmente, è la morte. Come quella del tacchino.

Vanessa Scalera è Laura. Volto scavato, occhi straniati resi brillanti da lacrime inghiottite, corpo tremante, ruvida nei gesti e nella voce, vive nell’angoscia che il suo coinvolgimento nell’incidente di due anni prima venga scoperto.

Anna Ferzetti è Lucia. La sorella che si sacrifica, che rinuncia all’amore per non lasciare la più piccola ormai invalida. Pietà o viltà che sia, Lucia è una donna sconfitta non dalle difficoltà, ma dal fatto di non averle affrontate.

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Daniela Marra è Costanza, la più piccola, la cui strada è stata sbarrata dal destino che le si è parato davanti e la cui cui collera mal celata si mischia a un lucido cinismo. Resa paraplegica a causa di un incidente, subisce un “destino di merda”, come lo definisce, o sconta un karma?

Insieme, Lucia e Costanza, danno vita a una intensa schermaglia dialettica che, scritta quattro anni fa, acquista oggi una rilevanza impressionante. Riferendosi a due ragazzi stranieri, morti nell’incidente che l’ha resa tetraplegica, Costanza chiede a Lucia: “scambieresti la mia guarigione per la loro vita?” E incrementa la posta aumentando il numero di ragazzi morti, facendoli provenire da Paesi sempre più lontani. Finché Lucia non urla: “non me ne frega un cazzo di vite che non so”.

In un gioco di specchi tra ipocrisia e ignavia, il testo ci obbliga a una riflessione: quante morti di persone sconosciute siamo disposti ad accettare, purché il nostro piccolo mondo antico sopravviva? Quanto la mia vita e quella dei miei cari, vale più della vita di altri, magari abitanti di una nazione lontana?

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Pier Giorgio Bellocchio è Carlo, uomo ambiguo, fastidioso, arrogante, respingente, che vuole solo mostrare come “da un sassolino viene fuori una valanga”. Come un battito d’ali di una farfalla possa provocare un uragano dall’altra parte del mondo. Un uomo che “fare miracoli come Cristo, proprio no, però posso offrire gratis la possibilità di realizzare un desiderio. Di quelli impossibili da realizzare, ovviamente”. Carlo offre un miracolo, come lo definisce Lucia. Ma un miracolo è un evento straordinario operato da un dio. Carlo, più che un angelo del Nuovo Testamento, sembra un anghelos della tragedia greca, un messaggero che porta informazioni su fatti tragici già accaduti, per far progredire la storia.

Carlo offre la possibilità di realizzare un desiderio: anche il genio della lampada offre questo, ma il desiderio va espresso, va pronunciato bene. Quello che offre Carlo si realizzerà appena desiderato, senza bisogno di esprimerlo a parole.

Desiderio: senza stelle, senza buoni auspici. Com’è un desiderio espresso senza che nessuno lo possa sentire? Quanto la paura del giudizio, la morale, influenzerebbe anche un atto così libero?

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Interessante che nelle note di regia Filippo Gili citi il film Stalker di Tarkovskji: “il Poeta e lo Scienziato, nel film Stalker, quando arriveranno alla Stanza dei desideri, si sottrarranno dall’esprimerne: chi garantisce che il desiderio più profondo sia quello cosciente, quello espresso, quello che deriva dall’amore, dalle cose chiare, piuttosto che uno strano oggetto che alberga nelle lontane caverne di un violento, libidico, antico Io?”

Gili, invece, lascia liberi i suoi personaggi di realizzare anche i desideri inconfessabili, incurante di quale uragano verrà generato da quel battito d’ali di farfalla. Lascia che siano registi del loro karma.

Ancora una volta, Filippo Gili compie una magia (in me ago): usa la vita di tutti i giorni per condurci dentro di noi. E la famiglia è il microcosmo dove mettere in scena tutto questo, riuniti attorno a un tavolo per cibarsi del tacchino morto.

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La drammaturgia di Gili procede a scatti, come fotogrammi di una vecchia pellicola, in una serie di quadri separati dal buio che ci passano davanti come pagine di un libro. In ognuna un duello, uno scontro tra personaggi, un tema: il libero arbitrio, la libertà, l’ineluttabilità del destino, l’impotenza, la paura del giudizio, la fede cieca alla quale aggrapparsi nella disperazione, la speranza, il moralismo, l’avidità. Legati da un filo ben visibile: il rapporto tra colpa e senso di colpa.

Un testo privo di pietà o misericordia: nella misura in cui un eventuale perdono è ininfluente rispetto alla natura delle nostre azioni e il senso di colpa non può porre rimedio a ciò che abbiamo commesso, qualsiasi sentimento compassionevole è vano.

Il destino ovvio, che ci taglia la strada, è un’opportunità per esercitare il libero arbitrio. L’azione, il battito d’ali di farfalla, sicuramente darà origine a una tempesta, ma tutto dipende dalla farfalla. Il dono immeritato di Laura, non si materializza dal nulla, non è il regalo di un fato cieco. È ciò che ha chiesto in silenzio, quando nessuno poteva ascoltare e giudicare. È il vero desiderio, senza stelle ma anche senza moralismi. La differenza non è tra ciò che viene dall’amore e ciò che alberga nell’oscurità delle nostre caverne. Entrambi esistono in noi. Il desiderio sarebbe in ogni caso cosciente. La differenza sta solo nel coraggio di confessarlo. Laura può scegliere: ridare le gambe a Costanza, la vita ai ragazzi morti, o…

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Il karma non è una maledizione, ma un’azione, un’opportunità. Nella scelta più estrema sta la libertà di Laura. Qualunque sarà il suo desiderio inconfessato, sarà frutto di una sua libera scelta. L’uragano sarà prodotto dalle sue ali.

Čechov, proprio in Tre sorelle, scrive: “Perché dobbiamo portare ad ogni costo sulla scena uomini stupidi o uomini che fanno gli intelligenti, perché non portare sulla scena degli uomini semplicemente intelligenti che non suscitino né riso né lacrime, ma semplicemente facciano pensare?”.

Ovvi destini: quattro solisti per un coro. Quattro personaggi che hanno trovato un autore. Quattro attori dalla personalità ben definita, che Gili non dirige: armonizza. Quattro personaggi intelligenti che non suscitano né riso né lacrime, ma fanno pensare.

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Ovvi destini: un destino che è tutto tranne che ovvio.

Da vedere.

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