“Io ero morto, ma ora vivo”. La biografia di Primo Levi e il significato del 25 aprile
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“Io ero morto, ma ora vivo”. La biografia di Primo Levi e il significato del 25 aprile

Il 25 aprile, giorno in cui si ricorda la liberazione dal nazifascismo, è la festa di tutti. O almeno, di tutti coloro che hanno a cuore la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, la democrazia – in una parola - la civiltà.

Primo Levi
Primo Levi
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

11 Aprile 2023 - 12.07


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Il 25 aprile, giorno in cui si ricorda la liberazione dal nazifascismo, è la festa di tutti. O almeno, di tutti coloro che hanno a cuore la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, la democrazia – in una parola, la civiltà.

Anno dopo anno, soggetto ad attacchi sempre più corrosivi e sfacciati delle forze reazionarie e neofasciste, il significato di questa ricorrenza appare via via più labile, smarrito nelle maglie del tempo e nell’avvicendarsi delle generazioni. Per riconnettere quel passato al presente, recuperarne il senso più autentico e trasmetterlo agli inconsapevoli, agli indifferenti, ai distratti, proponiamo di conoscere la vita di Primo Levi: ha davvero molto da insegnare, oggi più che mai. A guidarci, sarà la folgorante biografia scritta da Ian Thomson, traduttore, reporter e critico letterario inglese: Primo Levi. Una vita, pubblicata da Utet (pp. 806, € 29). Frutto di cinque anni di ricerche condotte per l’Europa e l’America, è un’opera ammirevole per precisione documentaria, ricostruzione storica, empatia e capacità narrativa, che conduce nel cuore dell’esperienza di un sopravvissuto ai campi di sterminio.

Primo Levi nacque il 31 luglio 1919 da una famiglia ebrea del ceto medio emancipata. Crebbe tra gli agi nel quartiere della Crocetta, un ragazzino esile ed educato, con un viso pallido dagli occhi azzurri. La grave crisi economica che attanagliava l’Italia postbellica, i rivolgimenti sociali che l’agitavano offrivano il fianco a derive autoritarie, e infatti un oscuro arruffapopolo fu più scaltro e lesto di altri: nell’ondata di violenze che investì la Penisola, il futuro duce si assicurò il potere. Primo aveva tre anni quando il 18 dicembre del 1922 gli squadroni della morte di Mussolini massacrarono a Torino 22 persone. Le Camicie nere non si limitarono a uccidere, prima costrinsero le loro vittime a bere olio di ricino. Anni dopo, reduce da Auschwitz, Levi noterà: “In questo modo un uomo viene fatto a pezzi, non è più un essere umano; ha crampi intestinali e deve correre al bagno ogni cinque minuti. C’è un legame diretto tra i massacri di Torino del 1922 e la cerimonia d’ingresso nei campi nazisti, dove ti spogliavano, distruggevano le tue fotografie, ti rasavano la testa e ti tatuavano il braccio. Questa è la demolizione dell’uomo; questo è il fascismo”.

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Naturalmente, il piccolo Levi venne inglobato nell’organizzazione fascista giovanile che mirava a instillare il conformismo nei bambini italiani e a plasmare ubbidienti burattini. Primo era un bimbo timido e tranquillo, piuttosto delicato, con un’intelligenza sopra la media. Nel settembre del 1930, a soli undici anni, entrò come anticipatario al liceo classico di punta della città, il D’Azeglio, culla dell’antifascismo torinese, dove sviluppò una solerte consapevolezza critica e il germe della resistenza antifascista.

Intanto, nel 1933 con l’ascesa al potere di Hitler in Germania cominciavano le aggressioni contro gli ebrei. Come la maggior parte degli ebrei italiani, i Levi non si sentivano direttamente minacciati da quelle violenze. Eppure, proprio quell’anno e il seguente la stampa di regime scatenò una pervicace campagna contro i giudei: attacchi che preparavano il terreno, con più d’un presagio di violenza. A Torino era attivo un importante ramo di Giustizia e Libertà, organizzazione antifascista cui aderivano molti amici e parenti dei Levi, presto arrestati, mandati al confino, uccisi: inesorabilmente, il cerchio si stringeva.

Nell’ottobre del 1937 Levi si iscrisse alla facoltà di chimica, dove si distinse come studente brillante e dall’alta levatura morale, caratteristica non insolita tra i giovani intellettuali torinesi del tempo. Ma il destino congiurava contro di lui e il suo popolo: il 1938 fu un crescendo antisemita, che culminò con le vergognose leggi razziali. L’impatto sulla vita del diciannovenne Levi e su migliaia di suoi correligionari fu diretto e scioccante. Il libro di Thomson rende con drammatica vividezza le condizioni in cui da un giorno all’altro si ritrovarono discriminati e perseguitati: espulsi dagli impieghi statali, dalle scuole pubbliche e dalle università, banditi dal Partito fascista e dall’esercito, costretti a vendere le proprietà, impossibilitati a sposare “ariani”.

Il 10 giugno del 1940 l’Italia entrò in guerra. Due giorni dopo, i bombardieri inglesi cominciarono a martellare Torino, che in pochi anni da affascinante centro artistico e culturale della Belle époque si ridusse in un ammasso di macerie. Nel 1943 Levi entrò nella resistenza torinese, nelle file del Partito d’Azione. Si rese utile come poté, ma il 13 dicembre, alle 4 del mattino, venne arrestato nella località di Amay, vicino Saint-Vincent, dov’era di base la sua cellula. Detenuto per settimane, il 20 gennaio del 1944 venne tradotto nel lager di Fossoli, paesino in provincia di Modena. Il 22 febbraio iniziò il lungo, tragico viaggio nei carri bestiame di un treno zeppo sino all’inverosimile di ebrei, dove sperimentò quel senso di perdita della dignità umana che in seguito avrebbe ben conosciuto. Il 26 febbraio entrò nel campo di concentramento di Auschwitz. Lo fecero spogliare, gli rasarono i capelli, gli incisero sul braccio il numero 174517. Da quel momento, privato del nome, dell’umanità, del passato e del futuro, divenne un essere subumano. Le terrificanti esperienze che vi fece sono narrate nel suo capolavoro Se questo è un uomo, ma il libro di Thomson racconta coralmente e con straordinario realismo anche le vicende dei conoscenti di Levi. In quel luogo progettato per annientare lo spirito umano, dove l’unico scopo era arrivare vivi a fine giornata, Levi sopravvisse undici mesi. Il 26 gennaio 1945 l’esercito dell’Armata rossa liberò lui e un pugno di scheletrici ebrei ancora in vita. All’uscita del campo pesava trentotto chili. 

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Ma la sua tremenda odissea non finì lì. Dopo mesi di orrore indicibile la vita era diventata irreale, il fisico e la mente erano minati, eppure una scintilla lo spingeva verso casa. Sperava di trovare ancora viva la famiglia, e prendeva corpo la ferrea decisione di raccontare quel che aveva visto: il mondo doveva sapere. Trascorse quattro mesi in un campo di raccolta sovietico, fuori Katowice; il 30 giugno lo misero su una tradotta destinata a Odessa, ma il convoglio deviò verso nord, in una regione disabitata della Bielorussia: altri due mesi nelle morse dell’incertezza, del tormento, della fame. Poi, finalmente, il 15 settembre partì verso casa. Dopo infinite deviazioni, dirottamenti, ritardi, attraverso l’Europa distrutta che pareva una landa infernale, il 17 ottobre giunse a Verona, e il 19 nella sua Torino. Era uno dei 24 ebrei tornati vivi dai lager sui 650 deportati da Fossoli.

Lì cominciò una terza odissea: nessuna gloria attendeva un ex schiavo dei lager nazisti. Traumatizzato, pieno di rabbia impotente, si sentiva un reietto. Era pervaso dai sensi di colpa, e una domanda straziante l’assillava: perché io sì e l’altro no? Fantasmi sulfurei e legioni di dannati infestavano le sue notti insonni, il bisogno di lavoro incalzava. Era tornato dai confini della civiltà con un messaggio urgente per gli umani, ma nessuno voleva ascoltare. Passarono anni prima che il genocidio degli ebrei emergesse in tutto il suo inedito orrore.

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Quell’instabile sopravvissuto riuscì a sposarsi, a mettere al mondo dei figli, ad imbastire uno straccio di vita. Tenne fede all’ideale che l’aveva tenuto vivo: raccontare l’inenarrabile. Ma il dolore ed il tormento che si portava dentro erano incancellabili, assumevano la forma della depressione. Una mattina aprì la porta di casa del suo appartamento al terzo piano, uscì sul ballatoio e si lanciò nel vuoto. Cadde in silenzio. Erano le 10.05 dell’11 aprile 1987. Aveva sessantasette anni.

Primo Levi è stata una delle voci più umane e civili del nostro tempo. Con la sua vita, con le sue opere, con il suo esempio ha combattuto la barbarie nazifascista, per costruire un mondo migliore. Era ben consapevole della responsabilità della sua testimonianza, e del modo giusto di recarla: rivolgersi alle nuove generazioni. Lui era morto, e si era ritrovato vivo: come recita un versetto dell’Apocalisse, doveva raccontare quell’esperienza. I suoi libri, gli articoli, lo spazio pubblico che occupava sono stati e sono necessari: affrontano l’evento centrale d’una vita e di tutto il Novecento, instillano nei giovani una maggiore consapevolezza sui falsi ideali e sui pericoli d’ogni fascismo. In tono profetico mettono in guardia dal passato perché, come amava ripetere, se non dominiamo il passato sarà lui a dominarci.

Noi, oggi, negando i valori incarnati dalla ricorrenza del 25 aprile corriamo questo rischio. Non condividerne gli ideali di libertà, civismo e democrazia, non avvertirli come parte integrante del proprio sentire, del proprio agire sociale e politico, significa ripudiare il patto costituzionale fondamento della nostra repubblica: in tal caso è ipocrita e ingannevole accreditarsi come democratici. Il 25 aprile è la festa di tutte le donne e di tutti gli uomini che credono nella civiltà e rifuggono la barbarie. Non c’è altro da aggiungere.

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