Il sentiero verso l'amore: riflessioni di vita e felicità

Matteo Zuppi esplora l'amore e la felicità in un mondo complesso, offrendo riflessioni preziose in "Dio non ci lascia soli

Il sentiero verso l'amore: riflessioni di vita e felicità
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21 Novembre 2023 - 01.14


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di Antonio Salvati

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È nelle librerie italiane da pochi giorni ed è già un successo. L’ultimo volume di Matteo Zuppi, Dio non ci lascia soli. Riflessioni di un cristiano in un mondo in crisi, Piemme (a cura di Mario Marazziti) edito da Piemme (pp. 256, € 18,90), che si legge tutto d’un fiato, è tante cose insieme. Un libro sull’amore, sulla felicità, sull’essere cristiani, nonché buoni cittadini. E tanto altro.

Tutti cerchiamo l’amore e abbiamo bisogno di amore. Siamo impastati di amore – ci ricorda il cardinale Zuppi – e «troviamo noi stessi quando amiamo e siamo amati». Ci esercitiamo in realtà molto poco, «e spesso la vita reale può essere deludente. L’amore sarebbe semplice, ma non è virtuale (quello vero!), ha sempre bisogno di un altro, di altri». Perché esso superi la prova delle distanze ha bisogno della presenza. Viviamo in un tempo paradossale. Infatti, siamo in possesso di una dotazione straordinaria di mezzi di comunicazione, profondamente assorbiti dalle nuove tecnologie, invaghiti dai beni materiali, omologati dall’affabulazione digitale. Eppure spesso accade di non riuscire a capirci e predilegiamo o subiamo il demone della solitudine che si impone e ci incupisce oltre un nostro atto di volontà. In realtà l’amore è sempre a portata di mano, «eppure è merce rara, tanto che ci abituiamo a vivere senza, a legami superficiali che spesso scompaiono quando devono affrontare gli inevitabili problemi della vita». 

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Ma l’amore si costruisce, avverte Zuppi. Si è persa tanta capacità di cercarlo, «nella convinzione diffusa che l’amore sia come l’ispirazione artistica, per cui c’è chi vi è più “portato”, chi ha la scintilla o che bisogna aspettare l’emozione. Dura davvero poco. Lo moltiplichiamo all’infinito, troviamo tante opportunità di felicità individuali, rapide, facili, ma non l’amore. Ne siamo talmente prigionieri che un amore vero, che sfida le avversità, sembra impossibile, oppure, in fondo, noioso. Quanto poco ci esercitiamo nell’arte dell’amore! Tutto quello che conta, anche l’amore, richiede insistenza, apprendimento, “lavoro”, fatica, costruzione». L’amore ha una forza straordinaria di aggiustare e trasformarsi, «forza che non usiamo, tanto che di fronte a qualche imperfezione ci sembra inutile continuare. Cerchiamo un amore impossibile e sciupiamo tanto amore umano vero, umile». Rincorriamo, illudendoci, improbabili prestazioni da immaginario pornografico di un amore che non esiste, ridotto a fisicità senza sentimento e non diamo valore all’amore vero, «che è sentimento, tenerezza, legame senza possesso perché l’amore ci rende una cosa sola». L’amore è un’arte, scrisse Erich Fromm in un fortunato e noto volume. Arte, non in senso dell’intuizione artistica. Non una forza inarrestabile che sgorga da dentro, come se ci fosse un genio innato dell’amore. Proprio perché è un’arte richiede fatica, pazienza, costruzione. E proprio perché è un’arte può essere imparata, «come si impara, in qualche modo, a dipingere. Solo se c’è questo poi troviamo il genio di ognuno, cioè la particolare capacità di amare che è originale nei pezzi unici che siamo». Per il cristiano l’amore scaturisce da Dio, dall’ascolto della sua Parola: «Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1 Gv 4, 16). Come l’apostolo Giovanni, il cristiano avverte, sente che l’amore di Gesù entra nella vita di ciascuno di in maniera personale; tanto che proprio l’apostolo Giovanni dirà di se stesso «il discepolo che Egli amava». Non è così per ogni discepolo che è sempre “amato”? È la sapienza – sottolinea Zuppi – dell’alleanza tra umanità e Dio racchiusa nel libro del Deuteronomio (6, 5): «Amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» e «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lev 19, 18), che poi, nei Vangeli, diventa il «comandamento dell’amore». Amore, àgape, è il nome stesso di Dio, «Dio è àgape», «Deus caritas est». 

È democratico l’amore, nessuno ne è escluso. Non è prerogativa di alcuni, dei più “buoni”. Tutti possiamo imparare a vivere l’amore, sostiene Zuppi. Solo così troviamo la felicità, anche in un mondo complicato, pieno di bellezza ma anche di durezze e di fatica di vivere, di ingiustizie, di grandi emozioni e di finti amori. È il modo per guarire e aiutare a guarire anche il nostro mondo. Partendo dalla Parola: «In principio era il Verbo (lògos) e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio» (Gv 1, 1). L’amore che viene dall’ascolto, dalla vicinanza affettiva caratterizzata dall’utilizzo del linguaggio fatto di parole buone. In tal senso, Viktor E. Frankl, il fondatore della logoterapia e dell’analisi esistenziale, sopravvissuto ai campi di sterminio, si interrogò molto sull’assenza di amore che porta all’isolamento e alla follia, sul senso e sulla ricerca di senso che scaturisce direttamente dal Lògos, mentre ha cercato per tutta la vita nel suo lavoro vie di guarigione, alla ricerca di senso in una situazione concreta, la nostra.

Il libro del Presidente della CEI è impregnato di pagine piene di speranza rivolte a ciascuno – credenti e non, credenti a modo proprio, scettici – e prefigurano un percorso oltre la violenza, l’aggressività, la solitudine, verso un futuro migliore, un futuro di pace. Un percorso felice. Si può essere felici, assicura Zuppi. Molti credono che il Vangelo ci chieda una vita grama, giusta magari, ma limitata da limiti, da sacrifici inutili e che altri considerano giusti, ma sempre un po’ come un dovere. In realtà «gli altri non sono un dovere e non sono una limitazione, sono una ricchezza per la nostra vita».

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 Si può essere più felici amando e occupandosi della felicità degli altri, lavorando per migliorare un mondo troppe volte paralizzato da paure. Paure e abitudini non fanno prendere iniziative per invertire il piano inclinato di un mondo che è vicino al punto di non ritorno nel consumo delle risorse per le generazioni che verranno, o per ricostruire la grammatica del vivere insieme tra popoli e generazioni. Si può ritrovare la strada della felicità. Felicità e non surrogati di essa. Chi conosce il cardinale – e io tra questi – sa quanto vive una vita ricca, piena, ma soprattutto felice. Perché consapevole che la felicità da soli e senza gli altri non c’è, e davvero ce ne restano solo i frammenti e la nostalgia. Non accontentiamoci di una vita dimezzata, è il suo invito. La spiritualità non è una peculiarità dei religiosi, non è un’illusione. Senza la ricerca di una vita autenticamente felice restiamo schiavi dall’insidioso pensiero corrente, che tante volte ci fa adattare, senza più voglia di cambiarlo, a un mondo che non ci piace. Liberi, sì, anche di «essere felici davvero e non contenti per le briciole». Siamo anche divertenti, se ci guardiamo con simpatia, suggerisce Zuppi.

Il volume affronta gli interrogativi difficili dei nostri tempi non solo con la fiducia nell’amore fraterno – così come tratteggiato più volte da Papa Francesco – ma con la consapevolezza che il proprio impegno deve essere condiviso sempre con qualcuno, «perché il cristiano come ogni uomo non è un’isola, ma ha sempre una comunità con cui vivere». Per il Presidente della CEI la Costituzione conserva un’impressionante vitalità ed attualità («abbiamo bisogno di te per ricordare da dove veniamo e per scegliere da che parte andare», scrisse in un libricino dell’anno scorso, Lettera alla Costituzione) e da essa dobbiamo recuperare la speranza che caratterizzava il nostro paese al termine del secondo conflitto mondiale quando buona parte dell’Italia era distrutta e molte erano le divisioni e le ferite. Eppure – ricorda Zuppi – c’era tanta speranza. La Costituzione italiana è diversa dalle altre. Non dichiara alle prime righe che siamo tutti uguali. È più realistica, rileva Zuppi. La pensava così don Lorenzo Milani, che vedeva che ci sono tanti Gianni destinati per censo, possibilità familiari, sociali, a una vita diversa dai tanti Pierino. Perché le disuguaglianze esistono. Per questo nella sua scuola di libertà e di conoscenza, a Barbiana, don Milani insisteva soprattutto sulla seconda parte dell’articolo 3. Perché mette dentro le radici della democrazia un impegno pro-attivo, il dovere collettivo, come «compito della Repubblica», proprio di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese». Per diventare uguali davvero. Non c’è nessuno uguale a un altro. «L’uguaglianza è sempre tra diversi. La luce si forma così, fatta da tanti colori che noi non vediamo, e così siamo noi. Se c’è un colore solo significa solo che è più buio. Quando funzionano, anche le democrazie sono così. Quando dimenticano di essere plurali si svuotano, smettono di rappresentare anche i non rappresentati, i senza voce, e di garantire anche le opposizioni e i più deboli. È la “carità sociale” di cui parla papa Francesco. Senza, tanti finiscono allora per guardarle con disaffezione e si allontanano».

La democrazia, anche piena di imperfezioni com’è, è preziosa «quando lavora al bene comune e la maggioranza sa di non essere il “tutto” e si sforza di rappresentare anche gli altri ma per davvero, nell’interesse della casa comune. Sono tanti anni che in Italia c’è una approssimazione della democrazia dell’alternanza, ma funziona poco». Ne erano consapevoli i padri costituenti, che pur avendo visioni del mondo differenti su tante cose «sapevano bene che chi vince deve proteggere e tutelare anche chi perde, garantire i diritti di chi la pensa diversamente, e rimuovere gli ostacoli che si frappongono al godimento pieno della libertà e della libertà dal bisogno per tutti, senza distinzioni». Avevano vissuto direttamente i disastri e l’oppressione dei fascismi. Fu messa al centro non l’idea dell’individuo, non una società di tanti diritti contrapposti, ma la persona, che presuppone e contiene sempre l’altro, la “sussidiarietà”, «cioè uno stato benevolo, vicino, ma non oppressivo, che aiuta il bene che viene dal basso, ma senza lasciare solo chi da solo fa fatica a uscire dal bisogno e a crescere come persona, come comunità. Non in nome di un collettivismo e di una omologazione che schiacciano, ma come premessa indispensabile per offrire a tutti tutte le possibilità, impegnandosi all’articolo 3 a rimuovere tutti gli impedimenti a che questo avvenga».

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Sono le considerazioni cdi un presule consapevole che realizzare se stessi comprende sempre anche gli altri. Un vescovo che ha fatto proprie le parole di Martin Buber che era convinto che «l’io costituisce se stesso nel tu». Per lui la relazione tra persona e persona è il centro dell’esistenza umana, «qualcosa che non ha l’eguale nella natura» (Il problema dell’uomo, 1943, p. 116, Marietti, 2004). Il centro è l’incontro. In cui – sottolinea Zuppi – «l’io non si appiattisce nell’altro e l’altro non è solo annullato dal nostro io. Anzi: trovo l’io trovando Dio e il noi, capendo che la domanda di fondo della vita “per chi, a che scopo?”, come sempre scriveva Buber ha solo una risposta: “Non per me”. Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé. “Non di te stesso, ma del mondo ti devi preoccupare!”. E se avviene questo troviamo finalmente l’io e non le infinite interpretazioni che lo nutrono e lo ingannano. Non ci siamo neppure noi senza dialogo e senza incontro». Quando incontriamo qualcuno dopo un tratto di strada, sappiamo quello che noi abbiamo già affrontato, e non il percorso dell’altro. «Siamo interessanti per gli altri anche per questo, e le nostre strade acquistano ricchezza e futuro».

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