L’Albergo dei Poveri e il realismo sociale di Gor’kij all’Argentina di Roma

Massimo Popolizio ed Emanuele Trevi firmano una grande operazione teatrale in scena fino al 3 marzo all'Argentina di Roma

L’albergo dei poveri - Massimo Popolizio - teatro Argentina
L’albergo dei poveri - Massimo Popolizio - teatro Argentina
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28 Febbraio 2024 - 21.36


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di Alessia de Antoniis

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È tutto brutto ne “L’albergo dei poveri” al teatro Argentina di Roma fino al 3 marzo. Sporco e violento. Personaggi come usciti dalle “Pitture nere” di Goya. Ignoranza e miseria umana. È il realismo sociale di Gor’kij con la regia di Massimo Popolizio e la riduzione teatrale firmata da Emanuele Trevi.

A rendere claustrofobici, spettrali, inquietanti i bassifondi della disperazione dell’opera di Gor’kij, le scene di Marco Rossi e Francesca Sgariboldi, le luci di Luigi Biondi, il sound design di Alessandro Saviozzi, i costumi di Gianluca Sbicca.

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Quattro quadri, sedici attori (Massimo Popolizio, Sandra Toffolatti, Raffaele Esposito, Michele Nani, Giovanni Battaglia, Aldo Ottobrino, Giampiero Cicciò, Francesco Giordano, Martin Chishimba, Silvia Pietta, Gabriele Brunelli, Diamara Ferrero, Marco Mavaracchio, Luca Carbone, Carolina Ellero, Zoe Zolferino), che salgono sul palco, strepitano, disquisiscono, e se ne vanno. E così per tutto il dramma. Nessuna storia. In fondo gli emarginati non ne hanno una: sono invisibili. In scena miseria, alcolismo, malattia, disperazione, morte; domande esistenziali sulla vita, sulla fede, la redenzione.

Sono loro i protagonisti. Sul palco i ceti più poveri: chi lotta per elevare la sua condizione, chi si illude di farlo, chi fa finta, chi rinuncia. Una guerra tra poveri. Individualismo per un’opera corale. Sono i miserabili senza futuro della Russia di Gor’kij, come quelli di Dickens a Londra o di Zola a Parigi. Sono i migranti senza passaporto, i morti senza nome, gli invisibili della società odierna, i reclusi senza diritti in carceri sperdute. Gli uomini ridotti allo stato bestiale da un potere che approfitta del dividi et impera. Oggi come centoventi anni fa.

La privazione che indurisce il cuore. Come il fabbro che, davanti alla moglie appena morta di tubercolosi, dice:  “Ha smesso di tossire, vero?”. O l’assassinio di Kostoloff che si riduce a un accidente liquidato in fretta. Lo scopo dello scrittore è semplicemente quello di mostrare un certo numero di personaggi, le loro motivazioni e i loro pensieri. Il loro pessimismo.

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Popolizio (Luka) “Per condotta grande peccatore, per vocazione pellegrino della specie più misera”, errante di luogo in luogo, con tanto di conchiglia di San Giacomo al collo, è il raggio di speranza in un luogo che non ne ha.  Luka è quella carità cristiana che lenisce per un attimo le ferite della disperazione senza guarirle. Tutt’altro che un pifferaio magico, lascia gli ospiti dell’albergo dei poveri esattamente come li ha trovati. Il baro resta tale, come la prostituta o il nobile ladro. L’assassinio di Kostoloff e la morte della moglie del fabbro non cambiano la storia né il cuore dei personaggi. Sembrano scuotere le loro menti intorpidite, ma è solo una minima folata di vento.

Luka, che potrebbe illuminare quel bassofondo, ne evidenzia per contrasto l’oscurità. Lontano dall’essere un portatore di valori, rende più nera la miseria umana di quei derelitti. Quando sparirà, l’attore si suiciderà. L’anestetico alle sofferenze dei dimenticati nei bassifondi continuerà ad essere la vodka. E i giorni continueranno a scorrere sempre uguali nella gabbia della povertà abitata da uomini nel loro stato di animalità, bestiali uno con l’altro. Una storia su una classe sociale tornata in auge: il sottoproletariato.

La rappresentazione al teatro Argentina conserva il titolo “L’albergo dei poveri”, dato a “Bassifondi” – titolo originale del testo di Maksim Gor’kij – da Giorgio Strehler nel 1947 in occasione dell’inaugurazione del Piccolo Teatro di Milano. Il risultato è una pièce ben recitata, ben diretta, con un cast di attori notevoli; una rappresentazione che vanta due firme di primissimo piano del teatro contemporaneo come quelle di Popolizio e Trevi. Ma esci dal teatro senza grandi turbamenti, più o meno come sei entrato, consapevole di aver assistito a un grande esercizio di stile. Una grande operazione teatrale che non emoziona.

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