Quarant'anni dopo, il campanello suona ancora

Al convegno romano sui quarant'anni del dialogo Peccei-Ikeda, accademici e attivisti denunciano: le crisi che viviamo sono "tecno-spirituali". E senza un alfabeto comune di valori, non sapremo nemmeno che tipo di imballaggio scegliere

Aurelio Peccei - Daisaku Ikeda - convegno -quarant'anni di Campanello d'allarme per il XXI secolo - di Alessia de Antoniis
Aurelio Peccei - Daisaku Ikeda
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6 Dicembre 2025 - 12.01


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di Alessia de Antoniis

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All’Università La Sapienza di Roma si è parlato di paura. Non della paura come reazione emotiva, ma della paura come strumento di governo. “Quando supera una certa soglia,” ha detto Enrico Giovannini (direttore scientifico dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, ASviS, e professore di economia statistica all’Università Tor Vergata), “reagiamo in modo totalmente stupido: ci chiudiamo, chiediamo sicurezza immediata, accettiamo soluzioni autoritarie in cambio della promessa di ordine”. È il terreno su cui prosperano i nuovi nazionalismi in Europa: le minacce – migranti, ambientalismo “radicale”, l’Europa – vengono amplificate, trasformate in consenso per politiche di chiusura.

Il convegno “Riflettere, unirsi, agire: dialoghi per un futuro comune” celebrava i quarant’anni di Campanello d’allarme per il XXI secolo, il dialogo tra Aurelio Peccei, cofondatore del Club di Roma, il think tank che negli anni Settanta pubblicò I limiti dello sviluppo, e Daisaku Ikeda, presidente della Soka Gakkai internazionale, movimento buddista laico. Un industriale italiano antifascista e un maestro buddista giapponese che negli anni settanta parlavano di crisi climatica, armamenti nucleari, disuguaglianze. Temi che oggi non suonano storici, ma attuali.

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Crisi tecno-spirituali

Diva Tondini, presidente della Fondazione Aurelio Peccei, ha liquidato l’idea che bastino aggiustamenti tecnici. Le crisi che viviamo sono “crisi tecno-spirituali”: riguardano il modo in cui abitiamo il mondo. Ikeda individuava nei “recessi della vita umana” l’origine dei problemi: senza evoluzione dei valori, strumenti come l’Agenda 2030 restano “gusci eleganti, ma vuoti”.

Mariella Nocenzi (professoressa di Sociologia, Università LUMSA, Comitato sostenibilità La Sapienza), ha parlato di valori come “bussole di orientamento”. “Senza un orizzonte comune sul futuro,” ha detto, “non sappiamo nemmeno quale stile di consumo considerare accettabile, come usare l’acqua, che tipo di imballaggio scegliere”. Ha proposto di costruire un “alfabeto comune”: se non siamo d’accordo su come nominiamo le cose, difficilmente cambieremo rotta insieme.

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Giovannini ha introdotto il termine Sapienza: non l’onniscienza dell’esperto, ma “profondo possesso di sapere unito alla capacità di giudicare con equilibrio”. Gran parte della popolazione italiana non ha visione positiva del futuro. I giovani, “pressati dalla paura”, scivolano in un presente cortissimo che “chiude agli altri e chiude al futuro”.

Giovannini ha poi evidenziato come la paura sia diventata uno strumento di governo. Il meccanismo è chiaro: amplificare le minacce – migranti, ambientalismo, Europa, élite – e indirizzarle contro qualcuno. Trasformarle in consenso per politiche di chiusura. Ma le crisi in gioco – clima, migrazioni, disuguaglianze – sono per definizione transnazionali: la retorica del “prima noi” è strutturalmente incompatibile con la loro natura.

Eppure proprio questa retorica si moltiplica. In un mondo in cui i governi di estrema destra si rafforzano, il richiamo di Peccei e Ikeda alla pace come “problema politico decisivo” acquista un peso specifico. “C’è un problema di fondo che dovrebbe unirci,” scrivevano quarant’anni fa. “Ci riferiamo alla pace. Vi esortiamo ad unirvi a noi serrando i ranghi”. Oggi pace e giustizia intergenerazionale appaiono sempre più come le due facce della stessa responsabilità.

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Tre segnali di speranza

Giovannini ha indicato tre elementi concreti. Primo: la riforma costituzionale del 2021-2022, che impegna la Repubblica a tutelare ambiente ed ecosistemi “anche negli interessi delle future generazioni”. Secondo: la valutazione di impatto generazionale per tutte le nuove leggi. Terzo: l’Assemblea Nazionale sul Futuro, proposta dall’ASviS. “Dobbiamo smetterla di parlare di giovani e cominciare ad ascoltarli”.

Ma tra norme e cultura c’è un abisso. Giuseppe Buffon, frate francescano e professore alla Pontificia Università Antonianum, ha avvertito che parlare di ecologia integrale non significa aggiungere un capitolo di biologia ai programmi universitari. Significa riconoscere che manca una rivoluzione culturale. Il problema non è solo cosa sappiamo delle crisi, ma come organizziamo la conoscenza e le professionalità chiamate a occuparsene.

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“È inutile parlare di futuro delle nuove generazioni – ha aggiunto Buffon – se non parliamo del futuro delle professionalità”. La frammentazione disciplinare impedisce risposte sistemiche.

Bene comune contro profitto

Livio De Santoli, prorettore alla sostenibilità della Sapienza, ha posto una domanda scomoda: il capitalismo è adatto per la transizione ecologica? La sua risposta è stata netta: no. “Con questi strumenti economici attuali è impossibile questo cambiamento, totalmente impossibile”. E ha indicato un’alternativa: sostituire il modello economico del profitto fine a se stesso con la cura del bene comune. “Il bene comune è l’unica cosa che ci permette di superare questa chiusura,” ha detto, citando Papa Francesco.

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Gianfranco Bologna, del Club of Rome, ha ricordato che sostenibilità significa “imparare a vivere nei limiti di un pianeta che ha limiti biologici definiti. È un concetto di limite, parola che il mondo della politica non vuole neppure sentir nominare

Robert Harrap, della Soka Gakkai Europea, ha parlato di “rivoluzione umana” che Ikeda sviluppò a partire dagli insegnamenti del suo maestro Josei Toda. “La rivoluzione umana di un singolo individuo contribuirà al cambiamento del destino di una nazione e condurrà infine a un cambiamento del destino di tutta l’umanità“, ha citato. Ma cos’è questa rivoluzione umana? Non è un cambiamento puramente intellettuale o spirituale: significa lavorare sui “tre veleni” del buddismo – avidità, collera, stupidità – categorie che smettono di sembrare esotiche se le leggiamo nelle cronache politiche quotidiane.

Quarant’anni fa, Peccei e Ikeda chiudevano il loro dialogo con un appello alla pace. “C’è un problema di fondo che dovrebbe unirci nel compimento di uno sforzo supremo,” scrivevano. “Ci riferiamo alla pace. Vi esortiamo ad unirvi a noi serrando i ranghi, facendo tutto il possibile per rettificare in misura decisiva uno stato di cose avviato ad assumere forme estreme”.

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Il campanello d’allarme suona ancora. E forse, come diceva il fisico Carlo Rovelli citato da Giovannini, dobbiamo accogliere l’incertezza, accettare l’incertezza, combattere la paura. Perché oltre una certa soglia la paura spegne il pensiero critico. E i governi lo sanno.

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