Guerra nucleare mai così vicina: il Sipri lancia l'allarme rosso

La preoccupazione del prestigioso Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) in un comunicato diffuso in occasione del suo nuovo rapporto annuale sul disarmo.

Guerra nucleare mai così vicina: il Sipri lancia l'allarme rosso
Guerra nucleare
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

13 Giugno 2022 - 16.53


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Siamo più esposti ad un conflitto nucleare di quanto lo fossimo stati all’epoca della Guerra fredda. 

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Allarme rosso

A renderlo noto è il prestigioso Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) in un comunicato diffuso in occasione del suo nuovo rapporto annuale sul disarmo.

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La 53ma edizione dell’annuario prevede che gli arsenali nucleari globali cresceranno man mano che gli Stati continueranno a modernizzarsi. Nello Yearbook 2022 disponibile da oggi, il Sipri raccoglie i risultati delle ricerche e analisi che  valutano lo stato attuale degli armamenti, del disarmo e della sicurezza internazionale. La scoperta chiave è che, nonostante una diminuzione marginale del numero di testate nucleari nel 2021, si prevede che gli arsenali nucleari aumenteranno nel prossimo decennio. Segno, dice il rapporto, che il declino degli arsenali nucleari post-guerra fredda sta finendo. 


I nove stati dotati di armi nucleari – Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, India, Pakistan, Israele e Repubblica popolare democratica di Corea (Corea del Nord) –- continuano a modernizzare i loro arsenali nucleari e sebbene il numero totale delle armi nucleari sia leggermente diminuito tra gennaio 2021 e gennaio 2022 (vedi tabella sotto), il numero probabilmente aumenterà nel prossimo decennio. Dell’inventario totale di circa 12 705 testate all’inizio del 2022, circa 9440 erano in scorte militari per un potenziale utilizzo. Di queste, circa 3732 testate sono state schierate con missili e aerei, e circa 2000, quasi tutte appartenenti alla Russia o agli Stati Uniti, sono state mantenute in uno stato di massima allerta operativa.

Sebbene le scorte totali di testate russe e statunitensi abbiano continuato a diminuire nel 2021, ciò è stato dovuto allo smantellamento delle testate che erano state ritirate dal servizio militare diversi anni fa. Il numero di testate nelle scorte militari utilizzabili dei due Paesi è rimasto relativamente stabile nel 2021. Le forze nucleari strategiche dispiegate di entrambi i paesi rientravano nei limiti fissati da un trattato bilaterale di riduzione delle armi nucleari (trattato del 2010 sulle misure per l’ulteriore riduzione e limitazione delle Armi offensive, nuovo Start). Si noti, tuttavia, che New Start non limita gli inventari totali di testate nucleari non strategiche. “Ci sono chiare indicazioni che le riduzioni che hanno caratterizzato gli arsenali nucleari globali dalla fine della Guerra Fredda sono terminate”, ha affermato Hans M. Kristensen, Associate Senior Fellow con il programma di distruzione di massa delle armi del Sipri e direttore del Nuclear Information Project della Federazione degli scienziati americani (Fas). “Tutti gli stati dotati di armi nucleari stanno aumentando o potenziando i loro arsenali e la maggior parte sta affinando la retorica nucleare e il ruolo che le armi nucleari svolgono nelle loro strategie militari”, ha rimarcato Wilfred Wan, direttore del programma di distruzione di massa delle armi del Sipri. ‘Questa è una tendenza molto preoccupante.’

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La Russia e gli Stati Uniti insieme – scrive ancora lo Yearbook –  possiedono oltre il 90 per cento di tutte le armi nucleari. Gli altri sette stati dotati di armi nucleari stanno sviluppando o schierando nuovi sistemi d’arma, o hanno annunciato la loro intenzione di farlo. La Cina è nel mezzo di una sostanziale espansione del suo arsenale di armi nucleari, che secondo le immagini satellitari include la costruzione di oltre 300 nuovi silos missilistici. Si pensa che diverse testate nucleari aggiuntive siano state assegnate alle forze operative nel 2021 in seguito alla consegna di nuovi lanciatori mobili e di un sottomarino.

Nucleare e non solo

Secondo un altro rapporto diffuso lo scorso aprile dal Sipri, nel 2021 la spesa militare complessiva di tutti i paesi del mondo ha superato la soglia dei 2mila miliardi di dollari annui, per la prima volta dal 1949 (cioè da quanto l’istituto ha iniziato a misurare questo dato). Secondo gli autori del rapporto, la guerra in Ucraina accelererà ulteriormente l’aumento di queste spese, soprattutto per gli investimenti che verranno fatti per sviluppare nuove tecnologie militari.

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Rispetto al 2020, nel 2021 la spesa militare globale è cresciuta dello 0,7 per cento, raggiungendo così i 2.113 miliardi di dollari (quasi 2mila miliardi di euro), equivalenti al 2,2 per cento del PIL globale. 

Secondo il rapporto, i cinque Paesi con le spese militari più alte nel 2021 sono stati Usa, Cina, Russia, India e Regno Unito: messe insieme, le loro spese militari ammontano al 62 per cento di quelle globali. Gli Stati Uniti sono ilPpaese con la spesa più alta: 801 miliardi di dollari (circa 749 miliardi di euro) nel 2021, equivalenti al 3,5 per cento del Pil (in Italia  siamo all’1,41 per cento, meno della metà) e al 38 per cento della spesa militare globale. Sull’aumento della spesa del 2021 ha avuto un peso notevole lo sviluppo di nuove tecnologie nucleari.

Al secondo posto, con l’equivalente di oltre 274 miliardi di euro, c’è stata la Cina, che rispetto al 2020 ha aumentato le proprie spese militari del 4,7 per cento: sono 27 anni, comunque, che la Cina sta aumentando le proprie spese militari, e da questo dipende anche l’aumento di quelle di altri paesi della regione del Pacifico, soprattutto l’Australia, che si sentono minacciati dalla sua presenza e intendono contrastarne l’espansione. Anche la Russia ha aumentato la propria spesa militare nel 2021, anno in cui ha preparato la propria invasione dell’Ucraina.

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Complessivamente il rapporto del Sipri conferma un trend di crescita ricominciato nel 2015 dopo una flessione durata qualche anno, e che ha diverse cause: in Europa è legato soprattutto all’invasione e annessione russa della Crimea nel 2014, che ha contribuito a rendere più forte la percezione della presenza di minacce da cui difendersi. I fatti in Crimea hanno inoltre spinto più Paesi membri della Nato (da 2 che erano nel 2014 a 8 nel 2021) a portare le proprie spese militari al 2 per cento del PIL, come peraltro previsto dagli impegni con l’alleanza.

Uno degli aspetti più interessanti del dato descritto dal Sipri, comunque, è che è considerato in crescita: Lucie Béraud-Sudreau, tra gli autori del rapporto, ha detto a Bloomberg che su questo peserà particolarmente la guerra in Ucraina, che porterà l’aumento della spesa militare globale a “intensificarsi e ad accelerare”, contrariamente alla gradualità che normalmente contraddistingue cambiamenti di questo tipo. Dopo l’invasione iniziata lo scorso febbraio altri Paesi membri della Nato si sono infatti detti pronti ad aumentare le proprie spese militari fino al 2 per cento del Pil, Italia compresa.

Il rapporto del Sipri permette anche di farsi un’idea di come potrebbe essere fatto, concretamente, l’aumento di queste spese militari. Negli Stati Uniti come in diversi Paesi europei sembra che la priorità sia continuare a modernizzare i propri eserciti e investire nello sviluppo di nuove tecnologie, più che semplicemente acquistare armi esistenti da altri paesi e aumentare numericamente il proprio arsenale.

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Béraud-Sudreau ha detto a Bloomberg che anche da questo punto di vista la guerra in Ucraina avrà un peso: tra le altre cose, le difficoltà avute dall’esercito russo hanno mostrato quanto sia fondamentale avere mezzi moderni e di alta qualità, linee di comunicazione sicure e criptate e un’organizzazione logistica efficiente.

Annota in proposito Francesco Palmas su Avvenire: “[…] la Russia, quinto paese in questa classifica poco gloriosa, destina oltre il 4% del Pil alle forze armate. Ha aumentato lo sforzo nei tre anni precedenti l’invasione dell’Ucraina, segno che la guerra era già nell’aria e che i timori del Papa sulla crescita delle spese militari sono più che giustificati.

Approfittando della guerra in Ucraina, anche il governo federale americano ha dirottato altri 31,6 miliardi di dollari sul bilancio del Pentagono, portandolo da 781,8 miliardi di quest’anno a 813,4 dell’anno prossimo. Più di 50 miliardi di dollari finanzieranno il comparto delle armi nucleari. Gli americani stanno investendo tantissimo nella ricerca e sviluppo di armi di rottura, che garantisca- no loro la supremazia tecnologica nei prossimi decenni. È dalla seconda guerra mondiale che la ricerca e sviluppo militare cresce, con l’obiettivo di confezionare armi superiori a quelle del nemico di turno. Sta generando una corsa tecnologica bellica: 69mila milioni di dollari l’anno sono bruciati nel settore della ricerca militare solo dagli americani. La Cina segue con 20-22mila milioni di dollari, mentre la Russia si ferma a 8mila-10mila milioni di dollari. Sommando tutti i paesi, il perfezionamento delle armi fagocita 116mila-123mila milioni di dollari l’anno. Un esempio aiuta a capire meglio. Lo sviluppo del cacciabombardiere Rafale era costato in tutto ai francesi 43 miliardi di euro.

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Il successore, già in itinere, ne richiederà come minimo 80. Un ospedale di 20mila metri quadri costa all’incirca 40 milioni di euro. Fatevi due calcoli. È tutto un mondo che gira a rovescio. I dati del Sipri fotografano dati drammatici e purtroppo già vecchi. La guerra in Ucraina sta spingendo anche l’Europa, il Canada e i paesi neutrali a riarmarsi. C’è un flusso di armi crescente, balzato nel continente europeo dal 10% del 2017 al 13% attuale. Il 1° Marzo, il quotidiano polacco Krytyka Polityczna ha salutato la decisione del vicino tedesco di aumentare le spe- se militari con un fondo di 100 miliardi di euro e un budget militare che sforerà nel 2023 il 2% del Pil. Ma il giornale di sinistra ha anche ammonito: «Non è affatto certo che in futuro la Germania avrà politici moderati e ragionevoli». Il 2% del Pil è bissato abbondantemente anche a Varsavia.

Scosso dall’invasione russa dell’Ucraina, il vice premier Kaczynski ha già annunciato un emendamento per far lievitare il budget militare al 3% del Pil fin dal 2023 e di aumentarlo anche in seguito. L’Italia seguirà il corso generale, spingendosi al 2% entro il 2028. Nel solo 2021 i paesi europei hanno speso per la difesa e per le armi 418 miliardi di euro, facendo segnare una crescita del 19% dal 2012 a oggi. Anziché cooperare, gli europei tendono però a concorrere. Nella ricerca tecnologica militare, i progetti svolti in comune rappresentavano il 22% nel 2005. Oggi siamo a meno del 9%. L’Agenzia europea per la difesa riceve appena lo 0,4% dei fondi per i progetti di categoria A, quelli che gestisce direttamente. Se aggiungiamo i progetti B, lanciati dall’Agenzia, ma finanziati direttamente dagli Stati, i conti non tornano lo stesso: il massimo mai raggiunto è stato di 144 milioni di euro nel 2009. Sui 2,3 miliardi spesi in tutto dai 27 nella ricerca tecnologica militare, il massimo di cui ha potuto beneficiare l’Agenzia è stato di 8,7 milioni nel 2010. Dopo è stato un declino continuo, a dispetto di tanta propaganda. Ognuno fa per sé, perché geloso della sovranità tecnologica. Si spende così più del necessario e male.

Vedremo se la scommessa del nuovo Fondo europeo per la difesa avrà successo: il finanziamento comunitario dovrebbe favorire i progetti cooperativi, riducendo l’investimento richiesto a ogni paese partecipante. Intanto, si annunciano anni amari, perché le spese militari stanno aumentando pure in Africa. Nella fascia subsahariana sono in corso 11 guerre. Un dramma nel dramma, perché la brama delle armi sembra contagiare un po’ tutti e non fa che alimentare i 21 conflitti maggiori di questa terza guerra mondiale a pezzetti, denunciata più volte da papa Francesco. Il cammino per debellare la guerra pare ancora lungo”, conclude Palmas.

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La denuncia di Amnesty

Amnesty International accusa la Russia di crimini di guerra in Ucraina, affermando che centinaia di civili sono morti a Kharkiv in attacchi effettuati con bombe a grappolo.  L’Ong per i diritti umani afferma di aver trovato prove che dimostrano che in almeno sette attacchi ai quartieri della seconda città più grande dell’Ucraina nordorientale le forze russe hanno utilizzato bombe di tipo 9N210 e 9N235 e mine a frammentazione, due categorie di armi vietate dai trattati  internazionali.  In un ultimo rapporto intitolato “Chiunque può morire in qualsiasi momento”, Amnesty spiega come le forze russe abbiano ucciso e causato immensi danni bombardando incessantemente le aree residenziali di Kharkiv dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio.
 “Le persone sono state uccise nelle loro case e nelle strade, nei campi da gioco e nei cimiteri”, afferma Donatella Rovera, ricercatrice su crisi e conflitti presso Amnesty. “L’uso ripetuto di munizioni a grappolo ampiamente vietate è scioccante e dimostra un completo disprezzo per le vite dei civili”, aggiunge. Sebbene la Russia non sia firmataria né della convenzione sulle munizioni a grappolo né di quella sulle mine antiuomo, il diritto umanitario internazionale – sottolinea Amnesty – vieta gli attacchi e l’uso di armi che per loro natura colpiscono indiscriminatamente e costituiscono un crimine di guerra.
 Un crimine che resta impunito. Fino a quando?

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