Cerciello Rega, la sentenza d'appello e il coro giustizialista sui carnefici stabiliti al di fuori del processo
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Cerciello Rega, la sentenza d'appello e il coro giustizialista sui carnefici stabiliti al di fuori del processo

Le sentenze dovrebbero essere il luogo in cui si ricostruiscono i fatti e le responsabilità e i dubbi trovano una soluzione logica con le prove e non il mezzo con il quale si ratificano i ruoli di vittime e carnefici come deciso dalla gente

Cerciello Rega, la sentenza d'appello e il coro giustizialista sui carnefici stabiliti al di fuori del processo
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Aldo Luchi Modifica articolo

22 Marzo 2022 - 21.23


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Ci risiamo: la Corte d’Assise d’Appello di Roma riduce la pena inflitta in primo grado a Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth a 24 e 22 anni di reclusione e immediatamente si scatena il coro del giustizialismo di destra e di sinistra contro una sentenza a loro dire troppo blanda.

Sappiamo bene che in Italia la Giustizia è campo per le tifoserie, quelle organizzate e schierate attraverso l’adesione fideistica ad una visione di parte, pur se senza alcuna conoscenza dei fatti storici e – soprattutto – delle norme che regolano la celebrazione dei processi e l’accertamento dei reati. “Questa non è giustizia” è diventato un sinonimo di “La nostra sete di vendetta non è stata saziata”. Un atteggiamento pregiudiziale che trova la sua più odiosa manifestazione nei messaggi scritti nelle chat dei Carabinieri subito dopo l’arresto dei due, in cui ci si raccomandava di far fare loro “la fine di Cucchi” o di “scioglierli nell’acido”, o nelle foto di uno dei due in Caserma legato ad una sedia e bendato.

E tanto più i fatti hanno rilievo e vengono trattati (quasi sempre maltrattati) dagli organi di informazione fin dalle prime fasi, tanto più gli schieramenti ultras si rafforzano e si accrescono, annoverando tra le proprie schiere politici, rappresentanti delle stesse istituzioni coinvolte e gente comune. Un pregiudizio che ci troveremo ad affrontare sempre, finché non si comprenderà che lo Stato non compie vendette ma amministra giustizia e che la pena non può avere una finalità retributiva ma soltanto una funzione rieducativa. 

Per chi, pur non praticando le aule giudiziarie, non si lascia trascinare nell’agone dell’argomentazione binaria, dove tutto è o bianco o nero, ma è capace di nutrire interesse per la comprensione degli aspetti complessi dei fenomeni, anche di quelli giudiziari, vale la pena di chiedersi se l’assurdo stia nell’esito della sentenza d’appello pronunciata appena due giorni o piuttosto nel fine pena mai pronunciato in primo grado, il 5 maggio 2021, dalla Corte d’Assise romana.  E prima ancora, se un processo con tanti punti rimasti oscuri possa concludersi con l’affermazione di colpevolezza degli imputati.

Tantissimi gli aspetti sui quali si è dibattuto in primo ed in secondo grado. Tra questi: il ruolo di Sergio Brugiatelli, il presunto spacciatore unico testimone oculare dello scontro tra i due diciannovenni americani e i due Carabinieri, Cerciello Rega e Varriale, morto appena tre mesi dopo il fatto; il perché i due Carabinieri intervengano nonostante siano liberi dal servizio e senza pistola d’ordinanza, il che porterebbe ad escludere che siano stati inviati sul posto dal centro operativo; il dubbio sul fatto che i due Carabinieri si siano identificati prima dello scontro; il dubbio su chi abbia portato sul posto il coltello con il quale sono stati inferti i fendenti (due dei quali fatali) alla vittima; le reticenze (le famose 53 bugie) del collega della vittima, il Carabiniere Varriale; la sproporzione evidente tra le lesioni subite da Varriale, quantificate in appena 10 giorni, e quelle subite da Cerciello Rega; l’equiparazione delle condotte di due ragazzi, uno accusato di essere stato l’ideatore del piano criminale che, però, si sarebbe dato alla fuga e l’altro accusato di essere il materiale esecutore dell’omicidio. Si tratta di aspetti che era indispensabile chiarire per qualificare correttamente tutti gli aspetti fattuali e il grado di consapevolezza dei due imputati, dal momento che tali aspetti hanno un enorme rilievo sulla qualificazione giuridica del fatto e sull’entità della pena irrogata in caso di colpevolezza. 

La Corte d’Assise di primo grado non aveva avuto dubbi circa la preordinazione del disegno criminale, parlando di “allarmante personalità nonostante la loro giovane età’”, di “adesione a modelli comportamentali devianti”, di “indubbia capacità criminale” e di “escalation di illegalità”. Tali valutazioni erano state utilizzate, insieme a quelle concernenti l’efferatezza del fatto, per negare ai due il riconoscimento delle attenuanti generiche, nonostante la giovanissima età e l’assenza di precedenti criminali, e per condannarli entrambi all’ergastolo. 

La Corte d’Assise d’Appello, ha invece riconosciuto ad entrambi le attenuanti generiche negate in primo grado (per il solo Hjorth il riconoscimento era stato sollecitato anche dal Procuratore Generale a conclusione della sua requisitoria), evidentemente in misura equivalente all’aggravante della premeditazione, e ha conseguentemente ridotto le pene inflitte, anche se bisognerà attendere il deposito delle motivazioni per comprenderne le ragioni. 

Quello che pare certo è che tutti gli altri punti oscuri reiteratamente evidenziati dalle difese non siano stati ritenuti tali dalla Corte di secondo grado, che neppure ha accolto le eccezioni di nullità della sentenza per violazione del principio del giusto processo, alla luce delle reiterate e documentate interferenze che i Giudici di primo grado avevano svolto sull’attività processuale delle difese, fino al punto di lasciarsi andare a definirla “ai limiti della decenza” e così suscitando molte proteste da parte delle associazioni forensi.

Le sentenze dovrebbero essere il luogo in cui si ricostruiscono i fatti e le responsabilità e i dubbi trovano una soluzione logica, coerente con le prove e argomentata e non il mezzo con il quale si ratificano i ruoli di vittime e carnefici già attribuiti a priori dall’opinione pubblica.

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