L'inferno nei Centri di identificazione italiani

La testimonianza di un giovane tunisino recluso nel Cie di Bari: "Trattati come bestie, se protesti botte e isolamento, calmanti e anestetici per tenerci buoni".

L'inferno nei Centri di identificazione italiani
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14 Febbraio 2012 - 12.05


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Una lunga testimonianza di un giovane nordafricano che era rinchiuso nel centro di identificazione e di espulsione pugliese. “Se facciamo lo sciopero della fame ci dicono ‘solo morto uscirai di qui’”. “Qui al centro c’è un ispettore che io chiamo Sharon italia. Odia tutti gli arabi e i mussulmani e ha una frase che ci ripete in continuazione: ‘Ti taglio la testa e ci gioco a calcio’. Se fai qualcosa o chiedi qualcosa che ti spetta di diritto arrivano a picchiarti e a portarti in isolamento per tre giorni, alla fine dei quali ti riportano al centro e da qui ricomincia la conta dei giorni, iniziando da capo come se fossimo ancora all’inizio”.

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Sono parole di un giovane tunisino che racconta i suoi mesi di detenzione nel Centro di Espulsione e Identificazione di Bari Palese. Un ragazzo che ha partecipato alla primavera araba e che oggi non si trova più nel Cie pugliese. “La cosa più disumana è che ci caricano di calmanti e anestetici in modo che rimani drogato e senza che te ne rendi conto non dai fastidio – continua il giovane – di solito questi medicinali dovrebbero essere prescritti dai medici, qui invece ce li somministrano senza né prescrizione né spiegazione, e così ci distruggono psicologicamente, fisicamente ed emotivamente”.

Sono stralci di una lunga lettera giunta a Redattore Sociale e di cui abbiamo verificato l’autenticità. La pubblichiamo come testimonianza della detenzione in uno dei Cie italiani dal punto di vista dei reclusi. “Se per caso decidi di fare lo sciopero della fame viene l’ispettore che ti fa paura dicendo che lo sciopero lo puoi anche fare perché solo da morto potrai uscire da qui – è scritto nel documento – A chi leggerà queste pagine noi chiediamo di dirci se per qualunque motivo noi siamo ritenuti criminali, terroristi o altro. Abbiamo chiesto aiuto a questo paese e ora stiamo peggio di prima. Ci trattano da schiavi. Fanno uscire chi vogliono e tengono dentro chi vogliono”.

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All’inizio della lettera, chi scrive racconta le aspettative che aveva imbarcandosi verso l’Europa. “Sono fuggito dal mio paese, la Tunisia, a causa di numerosi problemi che mi sono successi e qui ho trovato molta gente anch’essa fuggita come me da problemi politici e sociali. Qui in Italia, al contrario di quanto ci aspettassimo, al posto di ricevere il tanto desiderato aiuto, ci siamo imbattuti in altri grossi problemi, e ciò accade soprattutto al Centro di Bari Palese”.

Il resoconto prosegue descrivendo le misure di sorveglianza. “Veniamo trattati come assassini o terroristi. Il luogo è completamente circondato dall’esercito che ci osserva e ci tiene sotto controllo anche dalle torri e dalle pareti, senza mettere in conto che siamo rinchiusi da delle enormi porte di ferro molto alte e controllati a distanza da delle telecamere di videosorveglianza.
Siamo circondati da tre muri alti circa 15 metri l’uno, di ferro e di cemento armato. All’interno di questo centro-prigione non abbiamo nessun diritto. Questo non è un Centro ma un vero e proprio carcere dove tengono rinchiuse persone senza nessuna motivazione, l’unico loro reato è stato quello di aver superato la frontiera nascosti per giusta causa”.

L’autore della lettera denuncia anche la difficoltà di accedere alle informazioni sulla propria detenzione. “Se fai richiesta scritta per parlare con un assistente sociale devi attendere come minimo almeno quattro o cinque giorni prima che tu abbia la possibilità di parlarci. All’incontro con lui le domande sono sempre le stesse e sono del tipo perché siamo qua, quando usciamo e a che punto è arrivata la nostra pratica, e ovviamente le risposte sono sempre le stesse e infatti la solita scusa loro è che la pratica è dal giudice e che sarà lui a decidere. E anche il giudice non si sa mai quando poterlo incontrare a costo di attendere giorni o addirittura mesi, e quando finalmente lo incontri lui ti consegna una carta in cui c’è una proroga della detenzione di trenta giorni e ti chiede di firmare. Nel caso tu rifiutassi o chiedessi il motivo della tua firma, ti convince Dicendo che è solo per finire la pratica e fare i propri accertamenti”.

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Secondo il giovane tunisino, nel Cie subiscono una lunga detenzione anche persone perfettamente identificabili. “C’è gente che è qui da sei mesi e non è stata ancora identificata. In sintesi siamo diventati come animali da commercio e ci usano quanto più restiamo rinchiusi qui in modo da guadagnare sempre più denaro – racconta il testimone – ci sono altre persone che hanno sia la carta d’identità che il passaporto per tornare al proprio paese e nonostante ciò non sono state identificate e nessuno vuole liberarli. Mi chiedo spesso se ci libereranno presto oppure dovremo restare ancora qui rinchiusi almeno finché non venga un altro gruppo di sventurati a prendere il nostro posto. Credo che sia l’unico modo per uscire anche perché non gli conviene affatto tenere il centro vuoto”.

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