Ieri era il settimo anniversario del pontificato di Jorge Mario Bergoglio. Una ricorrenza, nulla di più. Ma tanti di noi se ne sono dimenticati. È normale. Chi non dimentica un compleanno mentre è ricoverato, o riceve un avviso di garanzia?
Eppure era, è l’occasione per fermarsi un attimo, dentro casa, assillati da pensieri infausti, da immagini spaventevoli, da ansie profonde: cosa significa questa ricorrenza di cui ci siamo dimenticati? Il pontificato di Jorge Mario Bergoglio ci dice qualcosa oggi?
Forse sì, visto che questo pontificato può essere riassunto in una frase, quella contenuta nell’intervista che concesse nell’estate del 2013 al direttore de La Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro: «Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso».
Questa frase ci aiuta a capire che da sette anni qualcuno cerca di aiutarci a capire come vivere e salvarci in questi tempi tremendi. Mi spiego.
L’ospedale da campo di Francesco non è stato pensato per il coronavirus. No. Francesco non ha la palla di vetro, non sapeva cosa ci sarebbe successo. Ma ci ha invitato a cambiare il nostro modo di rapportarci alla vita in questi tempi spaventosi, che non sono cominciati a gennaio del 2020.
Ragioniamo un po’: chi sono i medici e le infermiere che oggi tutti lodiamo, tutti apprezziamo? Sono degli uomini come noi che sfidano la paura e lo fanno per amore dell’altro e quindi di se stessi, per spirito di servizio alla loro comunità, messa a durissima prova da questa terrificante epidemia. Ma se capiamo che la nostra comunità fa parte di una più grande comunità, l’umanità, allora vediamo che i medici e le infermiere dei reparti di terapia intensiva di oggi sono i volontari e le volontarie di ieri, quelli che sono andati in mare a salvare da naufragio certo i migranti.
I porti chiusi di ieri infatti sarebbero gli ospedali chiusi di oggi. E quei cretini che sono andati alla movida nelle ore trascorse sono quei figli della movida di ieri che mentre festeggiavano non vedevano alcun bisogno di aiutare chi rischiava di affogare nel Mediterraneo.
Nessuno però ha detto che i medici e le infermiere che tengono aperti i reparti di terapia intensiva sono degli “sbruffoncelli”: il giudizio cambia perché l’epidemia di guerre, di saccheggi, di alluvioni, di desertificazioni che hanno devastato il sud del mondo non sono diventate pandemie, non hanno riguardato il nostro mondo. Dunque oggi possiamo finalmente capire che il dottore che abbiamo visto in televisione ieri è la Karola di quest’anno così doloroso, così difficile.
Oggi la Chiesa ospedale da campo di Francesco ha ancor più senso perché la pandemia è arrivata da noi, ci riguarda. Ma chi curerà la nostra solitudine, la nostra paura, se non una Chiesa capace di andare incontro ai senza tetto abbandonati nelle strade delle nostre città, ai lavoratori in nero dimenticati nei nostri quartieri senza traffico, senza vita?
Solo questa Chiesa ci potrà curare, ci potrà far sentire parte di una comunità che non muore, non si dimentica di noi, non ci dimenticherà neanche se siamo divorziati, o se abbiamo avuto una relazione extra-coniugale. Nell’ospedale da campo il medico tedesco non nega le cura al paziente italiano, né al libertino.
La misericordia è la medicina di cui abbiamo disperatamente bisogno. E’ stata misericordiosa la signora Lagarde quando ha detto che lei non sta lì a ridurre spread? O è stata feroce, spietata, cinica? Guardando la signora Lagarde però possiamo vedere i volti degli internati di Lesbo, dove sarà giunto, immagino, il Coronavirus: quando creammo questo lager europeo non fummo feroci, spietati cinici? Per resistere a questo incredibile senso di colpa e di vergogna può aiutarci solo la misericordia, l’idea che questa colpa assurda ci sarà perdonata. Ma dobbiamo cambiare strada.
Dunque il pontificato di Jorge Mario Bergoglio ci ha detto sette anni fa che ci si salva se ci salva con gli altri, non contro gli altri. Non è così con il coronavirus? Gli scellerati delle apericene non hanno esposto anche noi con i loro comportamenti idioti, criminali? E non dovremo però curare anche loro?
Guardo le strade deserte di Roma e mi chiedo quale altro pontefice avrebbe potuto salvarmi facendo riaprire le Chiese. Ma non per dire le messe, è chiaro che sarebbe pericoloso, ma perché gli ospedali da campo per i senza tetto, per chi è senza il suo piccolo lavoro nero, o per chi ha bisogno di andare un momento da Lei, a guardare il volto di Maria, non si possono chiudere. Perché il coronavirus ci spiega che anche se siamo chiusi dentro casa ce la possiamo fare solo se restiamo davvero uniti.
Uniti chi? Ma tutti i figli di Dio! La pandemia non si fronteggia con le risorse nazionali, da soli. Questo morbo si fronteggia unendo il mondo per sconfiggerlo, debellarlo. Se qualcuno pensasse che gli eurobond non gli convengono perché da lui il morbo ancora non c’è si rassereni: arriverà. La cosa imbarazzante è che sono sette anni che ci viene spiegato: vogliamo capirlo? Grazie.
Insomma, questo coronavirus potrebbe essere una drammatica ultima chiamata: non dico a chiederci come sia venuto fuori (ho un’idea come tanti) ma che o impariamo a vivere insieme come fratelli o periremo davvero tutti come dei folli. Lo disse tanti anni fa Martin Luther King, lo dice da sette anni davanti a questo mondo frantumato Francesco. I virus non si fermano davanti ai confini dei paesi abbienti.
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