La Russa e Meloni includeranno la strage di Bologna nella loro vendetta post-fascista?

L’arresto del fascista Paolo Bellini per la strage di Bologna riaccende i riflettori sulla strage del 2 agosto. Esecutori e mandanti

La Russa e Meloni  includeranno la strage di Bologna nella loro vendetta post-fascista?
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Claudio Visani Modifica articolo

30 Giugno 2023 - 21.00


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L’arresto di Paolo Bellini, condannato all’ergastolo in primo grado dalla corte d’assise di Bologna perché ritenuto il “quinto uomo” del commando fascista che fece saltare in aria la stazione provocando ottantacinque morti e duecento feriti – esattamente “l’aviere” che avrebbe portato la bomba, stando alle intercettazioni dell’ex capo di Ordine Nuovo, Carlo Maria Maggi – riaccende i riflettori sui processi ancora in corso per fare piena luce non solo sugli esecutori materiali ma anche sui mandanti e finanziatori della strage del 2 agosto 1980.

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Ricordiamo che per la “madre di tutte le stragi” sono già stati condannati in via definitiva i terroristi neri Valerio Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini (ma già da anni tutti liberi, con Fioravanti che addirittura scrive di giustizia per l’Unità di Piero Sansonetti) e, in primo grado, Gilberto Cavallini dei Nar e Paolo Bellini di Avanguardia Nazionale. 

Bellini è tornato in carcere per le minacce di morte rivolte alla ex moglie, che l’aveva riconosciuto in un vecchio filmato girato da un turista alla stazione di Bologna pochi minuti prima della strage, e al figlio del giudice Francesco Maria Caruso, presidente della corte d’assise di Bologna che lo ha condannato, intercettate dagli inquirenti. 

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Settantenne, reggiano, figlio di un ex ufficiale della Folgore, nostalgico del fascio e  uomo dai mille volti, prima ladro di mobili antichi, truffatore, pilota d’aerei poi “primula nera” del terrorismo di destra e collaboratore di giustizia al processo di Palermo sulla trattativa Stato-Mafia, autore di spietati omicidi politici e di mafia (nel 1975 assassinò il giovane di Lotta Continua, Alceste Campanile, l’anno dopo sparò alla schiena e ai testicoli al fidanzato della sorella “per ragioni d’onore”), latitante in Sud America con il falso nome di Roberto Da Silva, protetto dai Servizi segreti e anche dall’ex capo della Procura di Bologna al tempo della strage, Ugo Sisti, che il 2 agosto 1980, mentre a Bologna c’era l’inferno, andò a far visita a Reggio Emilia un suo vecchio amico, Aldo Bellini, un vecchio arnese del fascismo, padre di Paolo. 

Insomma, un bel personaggetto. Immerso in quel merdaio di assassini, servizi deviati, piduisti e gladiatori in cui operava il terrorismo nero negli anni della strategia della tensione finalizzata a tenere lontana dal potere i comunisti di Berlinguer. Una verità storica e politica assodata, che anche la giustizia ha confermato, prima con le sentenze definitive a carico di Fioravanti, Mambro e Ciavardini e per ultimo con le condanne di primo grado degli altri due esecutori fascisti (Cavallini e Bellini) ma anche – per la prima volta nella storia e con prove definite “eclatanti” dai giudici della Corte d’Appello di Bologna – dei mandanti, organizzatori e finanziatori della strage: i capi  della P2 Licio Gelli e Umberto Ortolani, l’ex capo dell’Ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato e l’ex senatore del Msi e direttore de ‘Il Borghese’ Mario Tedeschi, tutti deceduti. 

“In conclusione – hanno scritto i giudici nella motivazione della sentenza – deve ritenersi che l’esecuzione materiale della strage di Bologna sia imputabile ad un commando di soggetti provenienti da varie organizzazioni eversive (di destra) uniti dal comune obiettivo di destabilizzazione dell’ordine democratico, coordinati dai funzionari dei servizi segreti o da altri esponenti di apparati dello Stato, che a loro volta rispondevano alle direttive dei vertici della Loggia P2 a cui avevano giurato fedeltà, con un vergognoso tradimento della Costituzione Repubblicana”. 

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Una verità che però i fasci continuano a rigettare rilanciando ipotesi alternative, come quella della “pista palestinese”, che non hanno trovato fondamento in nessuna inchiesta e sono state demolite dall’ultima sentenza dei giudici. Ma l’opera revisionista e il tentativo di riscrivere a modo loro la storia vanno avanti, tanto più ora che sono al potere. Una campagna politica e mediatica potente volta a cancellare la matrice fascista della strage e le responsabilità del terrorismo nero nella storia recente d’Italia portata avanti da esponenti di spicco dei Fratelli d’Italia con la benedizione della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che per il 42esimo anniversario della strage scriveva: “Gli 85 morti e gli oltre 200 feriti della strage alla stazione meritano giustizia, per questo continueremo a chiederla insieme alla verità”. 

Sarà interessante vedere, ora che è premier, se per il prossimo due agosto avrà mantenuto o cambiato opinione. Soprattutto bisognerà vedere se la presa del potere faciliterà l’evoluzione democratica dei postfascisti o alimenterà la loro arroganza nostalgica. I precedenti non sono incoraggianti. Meloni ha difeso i post commemorativi del Movimento sociale di Almirante scritti dal presidente del Senato, Ignazio La Russa e dalla sottosegretaria Isabella Rauti, figlia di Pino, fondatore di Ordine Nuovo, definendolo “un partito della destra democratica e repubblicana che ha avuto il merito di traghettare milioni di italiani sconfitti dalla guerra verso la democrazia sottraendoli alla violenza politica”. E ha sostenuto la proposta di legge del vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, di istituire una commissione d’inchiesta sugli anni di piombo per “fare luce sulla violenza politica degli anni Settanta e Ottanta e sui tanti delitti (di sinistra) di quegli anni rimasti senza colpevoli”.

Per non parlare dello spettacolo offerto per l’ultimo 25 aprile, con i partigiani che a via Rasella spararono non sui nazisti ma “su una banda musicale di semi-pensionati” (La Russa, andato poi a celebrare la Liberazione a Praga in onore di Jan Palach, simbolo dell’anticomunismo) e le 335 vittime civili delle Fosse Ardeatine trucidate non perché antifascisti ed ebrei, “ma solo perché italiani” (Meloni). 

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C’è poco da fare, fascisti erano e fascisti sembrano voler rimanere. Quelli che nella testa e nel cuore hanno ancora la fiamma, simbolo delle “radici che non gelano”. Quelli che conservano gelosamente a casa i busti del Duce. Quelli che hanno rimosso la svolta di Fini a Fiuggi (“il fascismo male assoluto”). Quelli che hanno giurato sulla Carta antifascista ma sono allergici alle parole fascismo e antifascismo. Quelli che ora che sono maggioranza e al potere pensano che sia giunto il tempo della rivincita. 

“Nelle loro menti – ha scritto Nadia Urbinati – resta una incrostatura mai sciolta: l’odio contro coloro che, dopo averli atterrati nel 1945, hanno scritto le regole fondative del vivere civile e politico in modo che mai loro potessero tornare. Hanno dovuto cambiare nome, camuffare la loro identità. E nulla può essere più umiliante di non potere essere liberamente se stessi, a causa di una guerra civile persa. Oggi, La Russa e Meloni celebrano la loro vendetta. E dai ruoli più alti della Repubblica democratica antifascista affermano quello che da decenni avevano nel cuore: la Resistenza è stata una guerra minore, una ragazzata trasformata dai libri di storia e dai partiti che l’hanno fatta in un’epopea. La Resistenza come una battaglia di paese, senza eroici vincitori”.

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