Alle elezioni più pazze di sempre non poteva mancare il Partito della Follia. Il suo è uno dei settantacinque simboli ammessi dei 101 depositati. Le liste alla fine saranno meno, ma sempre una follia. All’ultimo ce l’hanno fatta a depositare le firme l’Unione Popolare di De Magistris e l’Italexit di Paragone, mentre sono stati esclusi i Gilet Arancioni del generale Pappalardo: ce ne faremo una ragione. Dalla caduta del governo Draghi a oggi ne abbiamo viste di tutti i colori. La fatwa di Letta a Conte, il voltafaccia di Calenda con Letta, quello di Conte in Sicilia, la scomparsa del campo largo progressista, l’estinzione della sinistra in parte assorbita dal Pd più di centro e atlantista di sempre e in parte dispersa nei soliti insignificanti rivoli, la ricomparsa di Berlusconi e di tutti i vecchi arnesi di quel centrodestra che nel 2011 ci aveva portati sull’orlo del baratro (Tremonti, La Russa, Pera, Gasparri, Calderoli, Fitto, Rotondi) e che oggi con la guida a destra rischia di farci scivolare fuori dall’Europa, tra i sovranisti e gli amici di Orban e Putin, e pure con qualche nostalgia ducesca.
Il Rosatellum e il taglio dei parlamentari (da 945 a 600) hanno fatto il resto. La caccia al seggio sicuro; le candidature decise dai capi partito infischiandosene di quel che pensano gli elettori e i territori (Casini a Bologna, Casellati in Basilicata, Fascina, la quasi moglie di Berlusconi, in Sicilia, Lotito in Molise); i big paracadutati in terre lontane dalle loro (Franceschini a Napoli, Boschi in Calabria, Bonelli a Imola, Fassino, Lorenzin e Bernini in Veneto, Camusso e Patuanelli in Campania, Boldrini in Toscana, Furlan in Sicilia); gli esclusi pronti a sbattere la porta o a cambiare partito, come per ultimi hanno fatto i fratelli Pittella, boss del Pd in Basilicata, e l’ex grillino ed ex sindaco di Parma, Federico Pizzarotti.
Una parabola fantozziana la sua. Solo pochi mesi fa aveva fatto l’accordo col Pd per l’elezione a sindaco del suo delfino, poi non ha trovato ospitalità nei dem, è passato dalla sera alla mattina con Renzi, poi è salito sul carro di Calenda ma è stato lasciato a piedi ed è dovuto scendere mestamente anche dal terzo polo. Per la serie “due stai sereno e un pollastro”. Oppure, se preferite: “Che fa, batti? Batti lei?”.
Insomma, un disastro. Partiti che non esistono più, sostituiti da una ristretta casta che fa e disfa a proprio piacimento, harakiri compresi, spesso senza nemmeno più coinvolgere gli iscritti (unica eccezione i Cinquestelle con le parlamentarie). Elettori privati della libertà di scegliere chi vorrebbero mandare in Parlamento (liste bloccate, niente preferenze, vietato il voto disgiunto, se voti Civati, per dire, eleggi Casini). La volontà dei cittadini che ancora credono nella politica e vanno a votare (appena la metà degli aventi diritto alle ultime amministrative) vanificata dall’arroganza dei leader. Lo si è visto chiaramente in Sicilia, dove il 25 settembre si vota anche per le regionali. Lì nei giorni della rottura nazionale tra Pd e Cinquestelle si sono svolte le primarie della coalizione M5s, Pd, Centopassi (la sinistra di Fava). Oltre trentamila siciliani sono andati ai gazebo e hanno scelto Caterina Chinnici, figlia del giudice Rocco ucciso dalla mafia, come candidata del fronte progressista. Ebbene, ieri, a 48 ore dalla presentazione delle liste, quel voto è stato buttato nel cesso. Conte ha deciso di sfilare i Cinquestelle dalla coalizione e di correre in solitaria (“così prenderemo più voti”, ha detto), regalando di fatto la vittoria alla destra.
E’ la politica senza più etica e morale. Come dimostrato anche dal dilagare dei voltagabbana. Dall’inizio dell’ultima legislatura, nel 2018, a oggi sono stati 300 i cambi di casacca tra i parlamentari: 86 senatori e 214 deputati hanno lasciato il gruppo del partito che li aveva eletti per iscriversi a un altro, e molti più di una volta dal momento che i cambi complessivi sono stati 449. Siamo all’indecenza. Poi c’è ancora qualcuno che si chiede perché la sfiducia nella politica è allo zenit, perché non funzionano più gli appelli al voto e il richiamo dei partiti a fare quadrato su liste e candidati improbabili.
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