In viaggio con Giulio Di Meo attraverso la fotografia umana e della speranza

Gli antidoti, suoi e nostri, per continuare a sentirsi vivi sognando un possibile futuro migliore.

In viaggio con Giulio Di Meo attraverso la fotografia umana e della speranza
Giulio Di Meo
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13 Aprile 2022 - 14.58 Giornale dello Spettacolo


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di Francesca Parenti

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Giulio Di Meo non ha bisogno di presentazioni, ma generosamente ha deciso di raccogliere il mio invito a raccontarsi.  E lo fa, in questo dialogo, con assoluta schiettezza e sincerità. Come sempre. Perché se in vent’anni di lavoro come fotoreporter serve di certo il pelo sullo stomaco, lui è rimasto immune dal rischio, facile, di avere peli sulla lingua. Io uso volutamente luoghi comuni, lui no. Mai.

Giulio vorrei immaginare e costruire questa intervista come una sorta di stream of consciousness. Mi spiego meglio: ti farò delle domande e mi piacerebbe che tu, rispondendo, ti lasciassi andare.Ti sentissi totalmente libero di far fluire i pensieri e, di conseguenza, le parole.

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Credo che sia la formula giusta, (forse l’unica), per un fotografo come te, che ha fatto dell’indipendenza una scelta perseguita ostinatamente. Che ne dici?

D’accordo. Cercherò di argomentare liberamente, come mi hai chiesto. Del resto, non sono avvezzo a fare le cose tutte sistemate, perché sono uno insistemato.

Quando hai capito che la fotografia sarebbe diventata il tuo lavoro?  È stata una scelta o una naturale inclinazione? Gli inizi come sono stati?  Come hai mosso i tuoi primi passi in questo mondo?

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Voglio precisare, prima di tutto, che la cosa più importante dimora nella concezione della fotografia. Per me, ancora oggi, non è solo un lavoro, ma una passione.  È soprattutto questo: un grande amore. Un sentimento sbocciato tanti anni fa, a partire dall’adolescenza. Nato perché mio padre era un appassionato di fotografia.

Nel contesto di un piccolo comune della Campania, situato nell’alto casertano, lui e i suoi amici, provenienti anche da altri luoghi attigui, con la pellicola in bianco e nero si ritrovavano per delle uscite e mi portavano in camera oscura. Insomma, è da lì che scaturisce la mia curiosità, l’interesse per quello strumento e per quel linguaggio.

Poi importano molto i miei primi viaggi. Essendo cresciuto in un comune di modeste dimensioni, il mio desiderio era provare ad evadere, iniziando a cercare la fuga.  Tuttora la fotografia rappresenta qualcosa di simile ad una fuga, quale unico mezzo per  mantenersi vivi e continuare a sognare. I viaggi iniziali coincidono con la voglia di uscire dal paese e andare alla scoperta del mondo.

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Papà mi prestava sempre le sue fotocamere e, al mio rientro, portava lui i rullini (perché di rullini si trattava) a sviluppare nello studio di un suo amico.  Così ho cominciato a coniugare fotografia e viaggi.  A seguire, sono entrate le persone insieme all’attenzione per il sociale: il dovere, quasi, dell’impegno civile e politico.

Ripensandoci ora, posso dire che è stato un percorso abbastanza naturale e riconducibile ad un’ottica deandreiana. Parafrasando liberamente: c’è chi lo fa per gioco, chi per lavoro, invece per me è un’effettiva e smisurata passione, perpetuamente in crescita.

Solo in seguito, ho avuto la fortuna di vederla diventare un lavoro.La trafila professionale è stata quella canonica, provando, all’inizio, con uno studio nel mio paesino. Però subitissimo, mi sono reso conto che fare foto classiche e da studio era qualcosa che mi irritava; mi facevano addirittura stare male, avvertivo un forte disagio.

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Non ero proprio la persona adatta per i matrimoni o le cerimonie. Perciò… niente. Scelgo, dunque, di avvicinarmi al mondo del fotogiornalismo con le sue peculiarità, comprendendo il ruolo che, in questo ambito, hanno il commissionato e la velocità.

Io, diversamente e in maniera crescente, avvertivo ed avverto l’interesse per la didattica, intesa come la ferma volontà di trasmettere agli altri. Sono anni che mi rivolgo alle scuole e cerco il contatto con i ragazzi. Attraverso l’istruzione e il coinvolgimento provo a traghettare verso questi lidi la fotografia, sfruttandone le potenzialità espressive.

È esattamente qui che risiede l’idea di provare a fornire un punto di vista personale, di portare avanti i miei progetti in modo indipendente, senza commissioni o incarichi e, allo stesso tempo, di sostenermi attraverso la didattica. Una pratica ormai ventennale che mi ha visto operare in numerosi corsi di reportage e di fotografia sociale.

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All’inizio, non si ragionava tanto sulla fotografia sociale e associavo ai miei corsi questo aggettivo. Oggi non lo faccio più. Forse sono un po’ disilluso, ma rimane basilare sottolinearne il ruolo sociale. È il nocciolo della questione. Mi riferisco al fatto non solo di  raccontare, di documentare, di testimoniare, ma anche a quello di essere coinvolti attivamente nelle realtà. Con i propri progetti, e le proprie immagini, non ci si deve limitare al solo documentare, bisogna spingersi più in là per realizzare qualcosa di concreto: è ciò che ho sempre cercato di fare. Infatti, se grazie ad essi (foto, mostre, libri e altro) si genera un guadagno o un ricavo, una parte deve sempre tornare alla situazione contingente, essendo investita in qualcosa: nel mio caso, in progetti educativi, di istruzione, di documentazione.

Ora una domanda “scomoda”, forse. Ci sono autori che ti hanno influenzato o ispirato? Insomma altri fotografi che puoi considerare “maestri”?

Non ho capito perché dici “domanda scomoda.” Certamente ci sono autori che mi hanno influenzato e che ammiro. Ce ne sono talmente tanti che dovrei fare una lunga lista e, forse, riuscirei anche a dimenticare qualcuno.

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La mia formazione si sposa con quello che penso della fotografia sociale e della fotografia in generale.Apprezzo notevolmente il lavoro che è stato fatto agli albori, da John Thomson, Jacob Riis, Lewis Hine. Proprio in questa successione, in quanto li considero il bisnonno, il nonno e il padre della fotografia sociale a livello di obiettivi, di quello che era possibile compiere a quei tempi.

Chiaramente bisogna sempre contestualizzare, considerando che siamo agli inizi dell’uso del medium come documentazione. Eppure, si ottenevano già notevoli risultati: pensiamo alla denuncia di Jacob Riis sulla condizione dei migranti a New York o alla decisione del Congresso Americano di vietare il lavoro minorile grazie all’opera di Hine.

Andando avanti, si arriva ad una fotografia di cui apprezzo l’approccio e l’obiettivo, ma anche la ricerca, il modo stesso di fotografare e di raccontare: mi riferisco alla Farm Security Administration e ai suoi esponenti che, non solo mi hanno influenzato, ma dei quali, quotidianamente, vado a riguardare qualche immagine.

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Una su tutti è Dorothea Lange. Una donna di preziosa sensibilità in grado di partorire immagini dotate di abissale carica emotiva e di potenza straordinaria. Ma anche tanti altri: forse troppo banale citare Walker Evans, che comunque adoro, per arrivare a nomi meno conosciuti come Gordon Parks o Russel Lee. E, anche se fuori dalla Farm, un’altra artista dalle capacità stupefacenti, Margaret Bourke-White: come non innamorarsi delle sue storie così toccanti.

Procedendo, arrivo all’Europa e ai nostri fratelli spagnoli. Due autori che apprezzo moltissimo sono Carlos Pérez Siquier, il quale, negli anni Cinquanta, ha realizzato un’indagine sul quartiere del barrio povero della Chancha, e Rafael Sanz Lobato con il suo taglio antropologico, sulle tradizioni e il folklore spagnolo.

E ancora Català Roca, un altro fotografo spagnolo che ammiro. Tra gli autori vicini temporalmente, menziono Koudelka e Depardon senza dubbio. Mi straccerei le vesti, per lui; mi tocca nel profondo. Della scuola francese, amo anche esponenti molto conosciuti come Doisneau: ne apprezzo, e sempre lo farò, la poesia, il suo essere così surreale, così ironico, così leggero, ma così emozionante. Ha fatto cose che vorrei fare anch’io, ma che non riesco a fare.

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Ho mancato l’Italia, ma non perché non ci siano o non ci siano stati fotografi bravissimi, anzi. Partiamo da quello che considero un maestro, un esempio: Dondero. Da giovane ho tentato di avvicinarlo. Non posso dimenticare la sua estrema gentilezza, il suo essere un lord inglese, la sua carineria infinita. Probabilmente, per non addolorarmi, la prima volta in cui vide un mio portfolio degli inizi, mi disse: “c’è talento qui, vedo un occhio profondo e  sensibile. Devi continuare”. 

Ho una assodata predilezione per Dondero, al di là di quest’episodio. Per lui vale lo stesso che per gli altri che ho menzionato: conta il loro modo di porsi verso il mondo e le persone, il loro pensiero, il loro modo di considerare la fotografia. Sono fermamente convinto che la fotografia sia uno strumento per raccontare e un autentico strumento di relazione, di stupenda conoscenza del mondo, dell’altro, di avvicinamento all’altrove.

Il suo potere consta nell’avvicinare luoghi, persone, volti, storie, anche se sono a migliaia di chilometri da noi, e, più nel piccolo, avvicinarci alla gente, a chi è di fronte all’obiettivo. Dondero, per me, racchiude questi ideali.

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Ma non dimentico gli altri italiani come Tino Petrelli, Franco Pinna, Pepi Merisio. Come ultimo nome cito Pesaresi, appositamente. Condivido molto con lui: lo stare dietro le quinte, la volontà di non apparire, di non sentirsi su un piedistallo o porsi nelle vesti di un una prima donna. Senza voler offendere né chi sta sui piedistalli, né chi sta tra le prime donne.

Ci accomuna la volontà di confonderci tra gli altri, provare ed essere convinti, nel fondo dell’anima, di non essere dei fotografi, di non passare per fotografi: nei confronti dei nostri soggetti e in virtù delle realtà in cui ci caliamo dobbiamo sempre essere prima delle persone, e, solo a seguire, delle persone con la passione della fotografia.

Ho dimenticato Ernesto Bazan. Uno dei miei primi workshop, nel 1999, l’ho fatto proprio con lui. Per la mia formazione e il mio percorso, Bazan è stata un’altra figura fondamentale: lo apprezzo come fotografo e lo considero un maestro, come chiedevi tu. Dopo il workshop, tenutosi a Cuba, anche lui mi fece notare, come Dondero, che avevo occhio e riuscivo a vedere in modo particolare e sensibile le cose, incoraggiandomi quindi ad andare avanti. Un altro insegnamento di cui gli sono debitore è di avanzare passo dopo passo, di non montarmi la testa, di non snaturarmi, di non scendere a compromessi.

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Il rapporto con i tuoi colleghi com’è? Hai mai percepito gelosie, comportamenti scorretti, poco limpidi o addirittura una sensazione di invidiosa competizione?

Il rapporto con i colleghi è assolutamente buono. Non ho percepito gelosie, comportamenti scorretti, invidia. Penso proprio di no. Forse per il mio essere un po’ un orso e restare al di fuori dei giri canonici. Per stare in alcune dinamiche devi saperti vendere bene: l’ho sempre fatto male, anzi, non l’ho mai fatto per davvero. Mi tengo lontano da certi ambienti che non mi piacciono; non posso affermare neppure che non mi piacciano, visto che, in fondo, non li conosco. Non mi attirano.

Invece con tanti colleghi, che ho incontrato e conosciuto, ho un ottimo rapporto. A partire proprio da Bazan, che, ripeto, vedo come un maestro. È grazie a lui, dopo l’esperienza didattica menzionata, che molteplici aspetti si sono dipanati.

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Così come con Dario De Dominicis, persona splendida, amico di Bazan: veniamo dalla stessa scuola e c’è sempre stato un proficuo rapporto tra di noi. Addirittura, per alcuni, propongo le loro storie e le porto ai miei allievi. Questo è avvenuto con Francesco Cito, Fausto Podavini e Paolo Marchetti. Faccio conoscere ai miei studenti, nell’esperienza didattica, altri autori. Spesso mi sono prodigato per organizzare corsi di altri.

Trovo stimolante rapportarmi e condividere esperienze con chi è più giovane di me. Negli ultimi anni, a tal proposito, con Nicola Zolin, Gabriele Cecconi e Danilo Di Meo, abbiamo organizzato e tenuto insieme dei workshop. A guidarmi è la volontà del confrontarsi, del condividere. È importante la pratica dell’ascolto, bisogna sviluppare e maturare la capacità di sedersi e stare a sentire, anche se non si è d’accordo. Stare lì, zitto, durante un workshop e ascoltare il tuo collega che sta parlando e riflettere, è un esercizio utile che aiuta nel tenere i piedi ben piantati a terra.

Interessante e bella anche la storia di Danilo Di Meo, bravissimo fotografo che porta il mio stesso cognome, ma non siamo parenti. Lui, diversi anni fa, mi scrisse: “ho visto il cognome come il mio. Ti seguo, sei un punto di riferimento”. Ha fatto e continua a fare un percorso molto interessante, è preparato e talentuoso. Dopo il suo trasferimento a Bologna abbiamo iniziato a fare attività insieme, siamo diventati amici e ci confrontiamo spesso. Pensa che bella, come storia pure, questa qua, nella sua semplicità e naturalezza. Una conoscenza che ci ha portato a realizzare progetti congiuntamente e la casualità di portare lo stesso cognome. Tutto questo è possibile solo grazie alla fotografia. È lei ad averlo consentito, facendoci conoscere, mettendoci accanto.

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In decenni di lavoro perché non hai mai sentito l’esigenza di partecipare a premi e neppure di associarti ad agenzie? Sembra quasi che il successo non ti interessi. Forse è solo il duro lavoro, a testa bassa, che persegui. Magari mi sbaglio. Dimmi tu.

Parto dal fondo. Quello che mi interessa non è il successo, anzi. Sono una persona portata a stare nelle retrovie. Ripeto, spesso, che noi fotografi parliamo sempre troppo; anche io, sono il primo a farlo quando si organizzano serate e incontri a parlare in eccesso. Lo intuisci dalle risposte che ti sto dando. Per i fotografi dovrebbero parlare le proprie immagini. Come un assioma: il fotografo se sta zitto è meglio e se lascia parlare le sue immagini è ancora meglio. Così non è e sono io l’ipocrita numero uno nel compierlo.

I premi mi hanno sempre posto tanti dubbi e domande. Nel percorso storico del fotogiornalismo, con la crisi del mercato editoriale, i fotografi si sono rivolti sempre di più al palcoscenico dei premi e dei concorsi. Io invece, vivendo di didattica, credo che, talvolta, siano diseducativi. Si spingono giovani fotografi e appassionati a partecipare, facendogli credere di poter raggiungere la notorietà e mantenerla solo in questo modo. Li si illude con la speranza che, grazie ad un riconoscimento, potranno vivere da subito di questo lavoro e affermarsi. Questa logica non mi piace, in quanto quello che deve passare è soprattutto l’etica che ha questo mestiere, ossia il raccontare per denunciare le storture del nostro mondo e, ancora di più, il lavorare per un cambiamento, in un senso più equo, in un senso più giusto.

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Se parto dal presupposto che prima mi devo affermare per camparci, vincendo un grande premio o tirando fuori un grande scoop, salto passaggi fondamentali. Mi domando come le foto di guerre, di morte, di violenza, di ingiustizia possano trasformarsi in una coppa, in un premio. E, di conseguenza, quanto diventino educative. Sono perplesso e pensieroso a riguardo, in un’ottica didattica e di formazione. Non mi ritroverei a mio agio nel partecipare a queste manifestazioni. Tali perplessità mi hanno tenuto sempre lontano da premi e concorsi.

Ma cerco comunque di riflettere sull’argomento in modo critico e mi pongo continuamente mille interrogativi. Lo faccio ragionandoci, per esempio, con gli amici del Festival della Fotografia Etica. Sono delle vetrine importanti per far conoscere i lavori ad un pubblico ampio ed ottenere visibilità. Si possono investire quei soldi in altri progetti e avvicinarsi alla documentazione, com’è giusto, con la corretta e lunga osservazione. Però mi restano sempre dei dubbi. Devo dire che ci sono premi e premi, concorsi e concorsi. Ho fatto un ragionamento generale quando invece si dovrebbe scindere e discernere caso per caso.

Ma, in linea generale, per i concorsi e i premi l’idea è questa: mi sembra strano e rischioso da un punto di vista didattico e, talvolta, anche da un punto di vista etico, che il reportage percorra quella strada. Vero è che si attira l’attenzione dei media, ma se per farlo si deve necessariamente vincere una competizione allora stiamo messi male.

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E poi ci sono, in aggiunta, la confusione e il rischio, che si reggono su un sottile equilibrio, in base ai quali il reportage venga assimilato all’arte. Non c’è niente di male, può diventarlo, ma deve restare principalmente informazione. Il mio pensiero corre alle nuove generazioni, ai giovani, dei quali mi preoccupo, a chi si avvicina al mondo della fotografia: mi sforzo per mettere, il più possibile, domande nella testa dei ragazzi.

È basilare, insieme al modo di riuscire a distinguersi  onestamente dalla massa, altro fondamento. Faccio loro l’esempio dei libri. Se io produco un libro di foto e lo vendo a 50 o 60 euro chi lo compra? E cos’è diventato? È diventato un pezzo d’arte o un pezzo di documentazione? La documentazione dovrebbe arrivare ai più e quindi costare poco, altrimenti mi rivolgo solo ad un’élite, ad un’esigua fascia di popolazione che si può permettere di comprare.

Così mi chiedo: a quel punto non si compra più tanto la denuncia o la documentazione o l’interesse verso quella tematica, si acquista invece per il nome del fotografo e per la bellezza delle foto, per il senso estetico, per la scelta artistica? Non lo so: altri dubbi ad alimentare i miei cospicui dubbi.

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Per quanto riguarda le agenzie, la risposta è molto semplice. Già quando ho iniziato, vent’anni fa, le agenzie non navigavano in ottime acque e i prezzi iniziavano a scendere. Non so quanto valga la pena lavorare per loro. Infatti ripeto che, con il mio lavoro e con le mie esigenze, me la cavo bene: grazie ai workshop, ai lavori che svolgo per le ONG, alla collaborazione con associazioni, alla produzione di libri e di mostre.

Ci vivo, anzi, la fotografia mi da più di quello che mi serve per campare. Ora ho un figlio e vedrò come saranno i prossimi anni. Forse mi rimangerò queste  parole! Ma per ora non mi lamento, non ambisco ad altro. Spero solo di poter continuare a  raccontare qualche storia mia, di poter seguire qualche tema e continuare a passare la passione agli altri.

La tua fotografia è sicuramente di reportage, ma lontana dagli standard canonici, ammesso che ve siano. Se potessi descrivere con qualche aggettivo la tua ricerca, quali useresti? E quali, invece, eviteresti assolutamente?

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Questa è una domanda difficile. Io credevo proprio di essere canonico, mi autodefinisco un classicone. Ti ho citato prima i fotografi che sono per me importanti, quelli che ammiro e amo.

Mi rifaccio a una certa fotografia e, riguardando le mie foto, mi vien da dire che sono molto classico, quasi vecchio. Vecchio dentro, vecchio fuori, vecchio anche nella fotografia e molto poco contemporaneo, di ricerca.

Il fatto che mi ritieni fuori dagli standard, mi destabilizza, ma prendo la tua affermazione come un complimento, fermo restando che, anche se fosse una critica, sarebbe bene accetta. Quanto gli aggettivi da associare alla mia ricerca, posso affermare che, per la fotografia che cerco di portare avanti, io spero sempre che sia umana. È la prima cosa che mi interessa.

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Cosa intendo per umana? Dove l’uomo è al centro: in tutte le sue sfaccettature, con tutte le sue gioie e ogni sua difficoltà. Anche nel travaglio si può trovare la strada e il modo per far fuoriuscire l’umanità. Aggiungo, inoltre, una fotografia, che definisco spesso, neorealista: in grado di parlare di temi che sono taciuti, che sono problematici, nelle fasce della popolazione che più sono intaccate.

Partigiana, nel senso che comunque la fotografia è soggettiva e quello che arriva al lettore è, in realtà, un riflesso di quello che inquadra, di come inquadra, di come vede, della sensibilità del fotografo. Ci si schiera a prescindere. Io ammetto da che parte sto, facendolo molto onestamente, per cercare di essere franco con i lettori. Sicuramente se dovessi scegliere un solo aggettivo metterei umana. Un altro epiteto che mi sta a cuore è la fotografia della speranza.

Spesso, la speranza la vedo poco, ma spero lo stesso. Voglio almeno illudermi che il termine speranza possa esserci. Diverse volte, dalle persone che guardavano i miei lavori, mi è stato comunicato questo: la percezione che ci fosse e ci sia speranza. E aggiungo, spero ci sia anche nell’umanità.

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Detto di questi tempi, inizia a scricchiolare anche in me l’idea di un’evoluzione positiva dell’umanità, ma alla speranza si deve rinunciare solo in ultimo. In ultima, ultima, ultima istanza. Invece un aggettivo a cui non vorrei fosse associata la mia fotografia è irrispettosa o indignitosa.

Mi farebbe molto male, in quanto la prima cosa che inseguo è il rispetto di chi ho dall’altra parte, il tentativo di riuscire, in qualsiasi situazione, a raccontare le persone con dignità. Lo auspico, così come mi auguro di non fare l’opposto, ossia essere indelicato, irrispettoso, indignitoso. Un altro aggettivo che mi attira, per questo tipo di fotografia, è popolare.

Dovremmo far diventare il reportage popolare, affinché possa arrivare a tanti e non sia elitario. Purtroppo arriva a pochi e questo è un tassello che non va bene, va cambiato. Anche qui è necessario riflettere: cosa si può fare per portarlo a diventare popolare tra le persone, educandole anche al linguaggio visuale? Sarebbe un sogno veder spopolare la fotografia di reportage.

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E poi tu parlavi di successo. Successo di chi? Chi è un fotografo conosciuto da tutti? Non lo so. Sono davvero poco conosciuti i fotografi. Ma quello poco importa, importante è che il linguaggio diventi molto più popolare.

L’insegnamento e la didattica sono, da sempre, parte fondamentale del tuo percorso. Puoi raccontarci meglio il ruolo che hanno per te e, di conseguenza, per le persone che da te possono apprendere? Come ti relazioni con i partecipanti ai tuoi workshop?

I workshop, l’insegnamento e l’interno universo didattico hanno un ruolo fondamentale: mi consentono di trasmettere ad altri la passione. Credo molto nella condivisione e, attraverso l’insegnamento, la posso mettere in atto: un trasferimento dell’amore e, spero, delle competenze.

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Ma trasferisco anche i dubbi, l’esigenza di riflettere, attraverso il confronto. Voglio che si sappia che io stesso non ho tante risposte. Avverto di dovermi confrontare, sentendomi, in parte, ipocrita. Tra i temi ci sono i concorsi (partecipare o meno) e le domande su quale sia la direzione della fotografia, il suo ruolo, gli obiettivi da perseguire. Al tempo stesso, infatti, realizzo mostre, faccio parte di giurie, perciò onestamente ti dico di avvertire una lieve ipocrisia. Va considerato anche che il mio stare all’angolo su alcuni aspetti e non entrare in specifiche dinamiche è per provare a provocare, per scatenare la voglia di ragionare consapevolmente.

Il contesto didattico è fondamentale anche in virtù delle scelte fatte (come il tenermi lontano dalle agenzie) e mi fornisce l’opportunità di essere autonomo, di scegliere cosa fare, di essere completamente indipendente.

La maggior parte dei corsi li organizzo e li promuovo da solo; quelli all’estero in collaborazione con ONG, soprattutto con l’ARCS che è l’ONG dell’Arci. Questo mi dota di una totale indipendenza e sono la mia fonte sicura di reddito, per così dire. Anche se di sicurezza nei workshop ce n’è poca: bisogna lottare per esserci, l’offerta di spessore non manca, però sono fortunato; negli anni ho creato una mia strada, una folta e affezionata platea di allievi e studenti. Dopo più di duecento corsi, oggi tutto è sufficientemente avviato.

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Non posso mai dare niente per scontato e ogni giorno devo conquistare la fiducia, il pezzettino di riconoscenza da parte di chi si avvicina ai corsi. Per quanto riguarda il rapporto con gli allievi, cerco sempre di passare, agli inizi di ogni workshop, questo messaggio: la cosa più bella che c’è nella fotografia è quella di essere un tramite, uno strumento per entrare in relazione con l’altro. Da qui, discende la condivisione tra i partecipanti e me, tra i partecipanti stessi, tra loro e le persone che vivono nei contesti dove andiamo. Il rapporto è sempre alla pari: si può fare questa fotografia solo ponendosi sempre sullo stesso piano degli altri. Anzi anche uno scalino sotto e con la massima umiltà, entrando in qualsiasi situazione in diretto contatto con le persone. Voglio far comprendere ai partecipanti l’interesse per le persone e, solo a seguire, l’interesse per la fotografia.

Se faccio capire che la sola cosa che mi interessa è la fotografia, allora ho sbagliato completamente mestiere. Per questo, la prima cosa che devo fare è entrare in relazione, riuscire a comunicare l’interesse per l’essere umano che ho di fronte. Solo a quel punto si spalancano mondi. Solo a quel punto si può provare a raccontare, ad immortalare, ma non dev’essere quella la cosa prioritaria. Prima viene l’interesse per le persone, lo stabilire una sorta di empatia da  trasmettere.

Da diverso tempo, hai scelto Bologna come “campo-base.” Perché? E soprattutto, perché non le città di Milano o Roma, dove tanti fotografi hanno scelto di vivere (probabilmente anche per logiche commerciali e professionali)?

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Perché Bologna? È semplice. Io vengo da un piccolo paesino della provincia di Caserta, un paesino di 2000 anime, minuscolo, provinciale.  Fin da bambino, ho sempre avuto il mito dell’Emilia-Romagna e di Bologna per le dinamiche sociali e politiche.

Ricordo, ad esempio, che alle elementari, ci invitavano a comprare un puzzle delle regioni. Tutta la mia classe comprava la Campania e io l’Emilia-Romagna. Hanno influito anche le passioni e l’impegno sociale e politico di mio padre.

Ho sempre avuto quest’idea fissa di Bologna la “rossa”, e dell’Emilia, dove, da un punto di vista sociale, le cose funzionavano in un certo modo. E dove l’attenzione ai diritti e ad alcune dinamiche erano particolari. Bologna per questo.

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Dopo aver girovagato per un po’, (tra Napoli, Roma, Firenze), ho trovato un approdo. Ma anche per il lavoro, i workshop e tutto quanto. È una città comodissima perché hai tutto ad un’ora, un’ora e mezza di tempo: Milano, Torino, Verona, Padova, Venezia, Firenze, quindi è strategica. Perché non Roma o Milano? Molto semplicemente perché vengo da un piccolo paesino e Milano, ancor più di Roma, mi hanno sempre spaventato. La metropoli? No. Invece Bologna è a dimensione umana. Ripenso alle prime volte a Milano quando un amico fotografo mi portava e mi veniva a prendere alla stazione, guidandomi nei luoghi glamour della città: io mi sentivo in forte disagio. Dopo anni e tantissimi workshop, ho iniziato ad amarla, mi sento a mio agio in alcuni quartieri, con le persone che mi circondano. Però mi è rimasta questa sensazione che credo sia molto legata alla mia provenienza, al mio mondo di crescita, rurale, piccolino.

Tutto quello che è grande mi fa un po’ paura. Scherzavo proprio l’altro giorno con un amico con cui sto facendo un laboratorio a Milano, dicendogli che ogni volta mi assale l’ansia di prendere la metropolitana, di sbagliare direzione, di trovarmi in difficoltà.

Sono un provinciale insomma. Sono un campagnolo.

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Sei Presidente dell’Associazione Witness Journal e photo editor dell’omonima rivista di fotogiornalismo. Insomma WJ è una tua creatura. Qual è la genesi e la ragione che ti ha spinto a dargli la luce?

In realtà WJ non è una mia creatura, ma una creazione di Amedeo Novelli che l’ha fondato nel 2007 come rivista. Io collaboro dal 2010 circa, poi ho preso la parte di photo editor. Dal 2016 abbiamo deciso di trasformarlo, anche, in un’Associazione di cui sono Presidente.

Cosa facciamo con WJ? L’idea iniziale di Amedeo, rafforzata a seguito del mio ingresso, era e rimane quella di diffondere il fotogiornalismo, dando spazio a progetti di documentazione sociale. Ecco spiegata la trasformazione da rivista in Associazione: la volontà di trovare nuove strade per provare a divulgare la fotografia.

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Non bastava solo la rivista, ma bisognava introdurre l’organizzazione di incontri, presentazioni di fotografi, fotogiornalisti, mostre, un festival,  laboratori sul territorio, progetti collettivi di documentazione. Quindi, non solo l’offerta di una  vetrina a fotografi che si stanno affacciando in questo settore o già affermati: la rivista è aperta a tutti, al contributo di tutti e ogni autore può partecipare. La redazione passa al vaglio le proposte e sceglie i lavori: ogni mese vengono pubblicate sette storie, sette reportage. Prima erano nove, poi abbiamo ridotto a sette. Dal 2007, abbiamo pubblicato 126 numeri e più di 1000 lavori.

Le storie arrivano da ogni parte del mondo e, per gli utenti, la fruizione è sempre stata gratuita. Ai soci è rivolto e dedicato un PDF che possono scaricare dal nostro sito. La scommessa di trasformare la rivista in Associazione coincide con il tentativo di provare a dare una sostenibilità al magazine che non ha mai avuto sponsor, non ha mai avuto pubblicità.

Sul nostro sito, sulla nostra rivista, non c’è una pagina con inserzioni pubblicitarie, proprio perché l’idea a monte, che sta a cuore a tutti noi di WJ, è quella di credere in un’informazione indipendente, in un fotogiornalismo indipendente e di qualità. E quindi la trasformazione è stata una scelta dettata anche dal desiderio di trovare soci, attraverso il tesseramento. Tante persone che contribuiscano, con una cifra piccola (10 € all’anno), a dare sostenibilità alla rivista e alle attività dell’Associazione. Vorremmo arrivare a remunerare un minimo i fotografi che contribuiscono e chi lavora all’interno della redazione. Fino ad ora non ci siamo riusciti.

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In Italia, riuscire far passare il messaggio di sostenere un’informazione indipendente, dal basso e gratuita è piuttosto complicato. In parte abbiamo raggiunto buoni risultati e siamo arrivati anche a 500 soci; chiaramente, la soglia di sostenibilità prevede un numero molto più elevato.

Infine è arrivato il Covid e gli ultimi anni sono stati molto difficili. Malgrado ciò, lungi dal sentirsi sconfitti, noi ci proviamo e con le attività associative oltre alla rivista, continuiamo la diffusione di questo tipo di fotografia attraverso tanti progetti, presentazioni e anche la nascita di realtà territoriali. Sono nati gruppi come WJ Bologna, WJ Milano, Trento, Udine, Parma, Taranto e Torino e cerchiamo di diffondere sui territori questo tipo di fotografia. I vari gruppi cercano di prodigarsi, di condividere, di impegnarsi in progetti collettivi di documentazione.

Questa è la nostra scommessa per il futuro. Per concludere e sintetizzare: gli obiettivi che abbiamo come WJ sono la diffusione di una fotografia di documentazione, di una fotografia indipendente, che guarda al lato formazione. Siamo partiti dall’assunto che per diffondere la rivista e questo tipo di fotografia attraverso la rivista, ci sia bisogno anche di portare questo linguaggio dappertutto, nelle scuole, sui territori, con progetti, con corsi di formazione, con l’offerta di workshop tenuti da fotografi professionisti e conosciuti, così come attraverso mostre, incontri e presentazioni.

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La vita di ogni fotogiornalista è per scelta, per volere e contingenze “nomade”, scandita da viaggi e spostamenti continui. Come sei riuscito a conciliare questa dimensione con la tua vita privata?

Nomade e, aggiungerei, precario. In una condizione perennemente precaria. La prima cosa che porta un fotografo ad amare questo mondo è la curiosità. Solo chi possiede curiosità è in un continuo movimento “nomade”, sia esterno che interno. Non mi sento un fotogiornalista, mi considero più un fotoreporter.

Il fotogiornalista lavora sulla news, il fatto, l’immediato, la notizia, che è tale se “cotta e mangiata subito.” Io, da quel mondo lì, sono sempre stato abbastanza distante per concezione, perché penso alla fotografia come strumento di approfondimento e linguaggio per portare le persone dentro le storie. Questo lo si può fare anche attraverso il fotogiornalismo, ma con maggior difficoltà. In un certo senso è diventato, inoltre, inflazionato. Visto il mercato e la crisi editoriale degli ultimi decenni, è ancor più difficoltosa la situazione del fotogiornalista tout court.

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In aggiunta, c’è una precarietà ancora maggiore, un nomadismo acuito, perché si è vincolati ai fatti e laddove accadono devi esserci subito e spostarti immediatamente. Io, semmai, sono più quello del dopo l’accaduto. Quando si spengono i riflettori, si abbassano le luci, le storie non trovano e non hanno più questo richiamo di interesse per i media mainstream.

Allora diventano ancora più interessanti da seguire e da raccontare. La mia passione, a parte questa differenza, è concentrarmi su ricerche a lungo termine: da un punto di vista organizzativo è meno complicato. Vero è che impegnandomi con i corsi, anche all’estero, sono anch’io sempre in giro, in movimento, ma riesco meglio a pianificare il tutto.

Il continuo movimento, è anche la bellezza del mio lavoro. Ti porta ad una continua messa in discussione, ad essere in cerca. Si è continuamente nomadi dentro e fuori. È quell’esigenza che ci porta ad amare la professione. Insieme alla curiosità interna che poi fuoriesce e diventa tangibile: ti viene voglia di andarci a mettere il naso, andarci a mettere gli occhi, portare le suole sempre su terreni nuovi. È la scoperta continua e più bella.

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Faccio riferimento ad una frase di De André: “quando ero piccolo mi innamoravo di tutto, correvo appresso ai cani”, per dire che da qualsiasi cosa può nascere l’interesse. Può essere l’articolo di un giornale, vedere una pubblicità, leggere il titolo su un manifesto, sentire la radio, un’intervista alla televisione e… ti innamori.

Ti innamori di tutto, come diceva De André. Ho deragliato, lo so, ma sono così: mi appassiono a tutto, qualsiasi cosa mi giunge all’orecchio subito mi porta a ideare un progetto. È così. Voglio andare lì, voglio andare qua, voglio correre di là. Talvolta questo fiume in piena diventa difficile da gestire perché ho talmente tanti input da vederli diventare un problema, siamo in tanti fotografi ad aprire ottomila progetti e poi a chiuderne due. Almeno è il mio caso: vorrei raccontare, vorrei approcciarmi, vorrei andare in diecimila parti, in diecimila luoghi e poi è palese che devo mediare, ponderando le scelte.

Scegliere ed essere bravo nel farlo, per poter concretizzare. Ma mi appassiona provare a seguire storie che non si vedono sulle pagine dei giornali.

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Tra tutti i paesi che hai visitato, in cui hai lavorato ed operi, i paesi latinoamericani rivestono da sempre un ruolo di primo piano. Pare, quasi, che tu ne abbia fatto una sorta di terra d’elezione. Ogni fotografo ha zone in cui torna più spesso, alle quali, in qualche modo è legato. Mi sbaglio?

È assolutamente così: in alcuni paesi in cui ti trovi a lavorare per anni e torni spesso, lasci un pezzo di cuore. A maggior ragione, ricollegandomi alla risposta che ho dato prima e proprio per il tipo di lavoro che seguo, è normale che spesso torni nelle stesse situazioni, nelle stesse realtà. In questo credo, per l’appunto, nella fotografia come approfondimento, viatico per entrare dentro.

Qui risiede l’importanza nello stabilire delle relazioni durature con le realtà e con le persone che fotografi. Solo facendo questo le foto accorciano le distanze tra te e le realtà, tra te e le persone e, di conseguenza, riducono la lontananza tra chi andrà a vedere queste immagini e le storie raccontate: una modalità immersiva.

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Sono molto legato ai tanti paesi del sud del mondo in cui ho realizzato progetti a lungo termine. Non a caso, ma per una predisposizione naturale. Anche se vivo a Bologna sono un terrone, un campano che guarda al sud per prossimità alle persone.

Ecco nascere il progetto sui Sem terra che ha visto la conclusione, in una piccola parte, con il libro di ritratti. In realtà, sul movimento Sem terra è da più di dieci anni che cerco di portare avanti un lavoro, così come sui cubani (è dal 2002 che indago la vita sull’isola). A queste due realtà sono legatissimo. Ai contadini brasiliani dico sempre: “io non mi sento tanto parte di qualcosa in Italia, quanto invece mi sento un militante, uno che fa parte del movimento Sem terra dei contadini brasiliani.” Quando vado nei villaggi e negli accampamenti dei Sem terra, mi sento a casa. Questo tipo di fotografia diventa una questione sentimentale.

È lì la differenza che dicevamo: una fotografia del fatto che risiede sull’immediato (quando quella notizia passa, devi passare subito ad altro) e questo tipo di fotografia che offre la possibilità di tessere relazioni. E i rapporti sono sentimentali perché ci lasci il cuore e l’anima.

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Così è stato con il popolo e i campi profughi Saharawi, dove sono tornato per più e più anni fino alla pubblicazione del libro nel 2013. Non sono più tornato da quell’anno, ma ne ho una gran voglia. Non passerà troppo tempo e di sicuro tornerò. Lì andavo ogni anno, le famiglie mi accoglievano, dandomi tutto: incluso quello che non hanno e non avevano.

Uno sguardo indietro. Ripensando alla tua carriera hai qualche rammarico, qualcosa che vorresti aver fatto e non sei riuscito a fare? Per cause indipendenti o meno dalla tua volontà?

Mah… rammarichi tanti e nessuno. Nel senso: ho qualche rammarico per la mia capoccia dura. Mi spiego meglio. Quello che più persone mi hanno detto e, che da più parti mi è stato fatto notare, è che ho una zucca tosta, che tendo a fare sempre da solo e senza mai propormi troppo.

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Accadimenti imputabili al carattere, ad un’indole anarchica che è difficile smontare. Anarchico, indipendentista, isolazionista. Da un lato, se è vero che per ogni pubblicazione ho coinvolto amici e ho sentito pareri a destra e a manca, dall’altro riconosco di non essermi aperto maggiormente. Se lo avessi fatto, avrei usufruito di occasioni di confronto con altre professionalità, giungendo ad una crescita maggiore.

Ecco, questo è il rammarico: sono sempre stato troppo chiuso nel mio mondo, nel mio modo di fare, un po’ isolato, un po’ orso. Me ne sto per i fatti miei. Ora inizio a leggere questo atteggiamento in chiave critica verso me stesso.

Non mi sono mai proposto all’estero, a nessuna rivista, a nessuna agenzia, a nessun festival. Neanche per curiosità. Non sono mai stato a Perpignan o ad Arles. Niente. Sono proprio una zucca dura. Parto da un presupposto: fotografo per me. Tante storie rimangono chiuse nel cassetto.

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Vedo migliaia di foto a settimana, sia per WJ che durante i corsi, al punto che spesso di fronte alle mie mi viene il disgusto; così non le guardo e non le uso.  Stanno lì, anche per anni. Forse lì, rimarranno per anni.

Senza essere neanche viste. Non si scatena neanche la curiosità, perché mi dico: “adesso faccio, poi vedrò.” La fotografia, ribadisco, è un fatto personale. Quando arriverò alla vecchiaia, aprirò i cassetti e riandrò a vedere alcune immagini: ecco la magia che risiede nella memoria. Quegli scatti saranno la forza della memoria, mi ricorderanno le esperienze, le persone, le storie, gli incontri. Le ritroverò soprattutto per me, legate sempre a quella curiosità, a quella ricerca di condivisione e apertura verso l’altro. Eppure anche meno per gli altri: prima un’esigenza mia e, solo poi, quella di restituzione agli altri.

Uno sguardo avanti. Qualche anticipazione sui progetti futuri?

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Mi piacerebbe portare a termine almeno una parte di quello che ho iniziato. Ad esempio, sono anni che devo finire il libro su Cuba, ma faccio fatica. La chiusura è portarlo alla pubblicazione. Ho un foltissimo materiale che racconta gli ultimi vent’anni a Cuba: dovrei trovare, prima o poi, la forza di lavorarci. Sono anche in parte stanco di lavorare sulle pubblicazioni. Non tanto sul lavoro di costruzione (ossia la scelta delle foto, l’editing, la sequenza), ma su quello che è il dopo. Intendo la promozione, l’organizzazione di serate, di presentazioni, ritrovandomi in giro a dire sempre le stesse cose. Questo mi affascina meno e sono più trattenuto anche per mancanza di tempo. Vorrei portare a termine il lavoro sul movimento Sem Terra, prima o poi.

Così come altri progetti e nuove idee che mi frullano in testa: fare qualcosa sugli aspetti dell’ambiente, in un modo particolare; realizzare qualche lavoro su quelle che vengono chiamate blue zone (questi paesini in giro per il mondo dove c’è un alto tasso di ultra centenari); un’altra ricerca aperta è su una piccola realtà in Romania. Ma ancora e sempre, molte altre cose.

Per finire, uno dei progetti che percepisco come un’antologia del mio modo di pensare la fotografia: “Riflessi Antagonisti.” Torno a quello che ci dicevamo prima, legato al Sud America, ai paesi dell’America Latina, nei quali ritrovo un legame, un intento sentimentale.

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Penso alle difficoltà e alle ingiustizie vissute da quel continente e, per contro, alla positività, alla voglia di vivere, che al tempo stesso permane. La gioia delle persone, in Brasile e a Cuba, scalda il cuore. Ricorderò sempre ciò che accadde in un piccolo villaggio contadino sperduto ai confini con l’Amazzonia, dove arrivai con un gruppo di italiani partecipanti ad un workshop. Vedendoci un ragazzo scoppiò a piangere per la felicità data dall’incontro.

Semplice: l’essere umano che incontra l’essere umano. Il solo fatto di incontrarsi è fonte di gioia. Torniamo a “Riflessi Antagonisti.” Per riflessi intendo la narrazione dell’America Latina degli ultimi anni, incluse le lotte che ci sono e le rivendicazioni dei diritti. La constatazione di aver subito un depauperamento, per secoli, da parte degli europei (pensiamo solo allo sfruttamento delle miniere) a favore dello sviluppo industriale europeo.

A chi vive in quei territori spesso resta poco. Ed ecco spiegato il termine antagonista che si fa veicolo per raccontare le difficoltà, ma anche le lotte che si portano avanti.

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Ad essere sincero uso riflessi perché ho sempre amato la fotografia di riflessi. La fotografia stessa è un riflesso. Quello che arriva agli altri è il nostro modo di vedere, la realtà vista attraverso gli occhi di un fotografo. Quello che arriva alle persone non è assolutamente la verità, ma un’interpretazione: il riflesso di quanto visto dagli occhi del fotografo.

L’ultima decisiva domanda, un po’ marzulliana: chi è Giulio Di Meo, secondo Giulio Di Meo?

Cerco di essere conciso. Chi è Giulio Di Meo secondo Giulio Di Meo? Boh! È ancora difficile capirlo, difficile dirlo. Penso di essere una persona normale, complicato ma normale.

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Un uomo con tanti difetti e qualche pregio. Tra i pregi spero di avere quello di mettermi sempre al pari con tutti, di non risultare mai sopra qualcuno, proprio per il mio mestiere. Mi auguro di essere una persona che ha continuamente voglia di confrontarsi, di entrare in relazione con gli altri. Grazie al rapporto con gli altri possiamo migliorare. Sono un essere in cammino, che prova umilmente a crescere, che si mette in discussione, che cerca di fare, ogni giorno, un pezzo di strada in più. Metto qualcosina di mio, insieme agli altri. Provando a battermi per costruire una società un pochino migliore: non voglio risultare esagerato, tento solo di offrire un mio personale contributo.

Aggiungo io, perché mi sembra doveroso, l’aggettivo modesto. Un attributo per nulla scontato, semmai una dote rara nell’oceano mediatico popolato da onanismi ed ego smisurati. Le parole di Giulio Di Meo sono foriere di possibilità inaspettate, di speranza verso il futuro e il prossimo. Chissà che i lettori, in un universo sconvolto da una pandemia planetaria e da un conflitto di indicibile atrocità, non possano trovare in lui un momento improvviso e sorprendente di possibile e auspicabile recupero della fiducia.

Senza che, per questo, ci si arroghi la presunzione di cambiare le sorti del mondo. Per Giulio Di Meo la fede nell’essere umano, anche quando tutto è ridotto a brandelli, non deve mai venire meno. Lui si ostina a ripeterselo e a ripetercelo: non ci resta alternativa.

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I suoi interrogativi alimentano altre domande perpetuamente, in una discesa introspettiva che coinvolge, e riguarda, noi tutti. La volontà di sognare, la curiosità, la speranza che guidano il suo e il nostro incedere nel mondo, non possono e non devono essere cancellate. Ora più che mai. Questo è il lascito e l’insegnamento di Giulio. Oggi, domani, ad libitum.

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