Najib e Seema, la fuga dall'Afghanistan per vivere finalmente insieme

Questa è una storia vera. Un ragazzo e una ragazza che hanno attraversato la Russia, la Norvegia per sfuggire al terrore. Che rischiano di essere rispediti a casa. E che in Italia hanno trovato pace

Matrimonio a Kabul
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18 Novembre 2017 - 15.39


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di Cristiana Cella*

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Ci sono accordi internazionali che calano come una mannaia sulla vita delle persone. E’ così per il Joint Way Forward Agreement, firmato nell’ottobre ’16 tra la UE e il Governo afghano, che riceverà i 16 miliardi di aiuti dall’Unione Europea, in cambio del rimpatrio forzato dei migranti afghani a cui è negato il diritto d’asilo. 50 persone a volo, numero dei voli illimitato. Previsione: 80.000 persone, 10.000 già rimpatriate nel 2016, rispedite indietro in un paese in guerra, il secondo al mondo per numero di attentati terroristici, 1340 attacchi nel 2016, 4561 morti. Accordo che viola evidentemente i principi della Convenzione di Ginevra, perseguito con puntiglioso accanimento dai paesi europei. Donne, uomini, bambini costretti a tornare indietro, al punto di partenza, agli incubi dai quali scappavano. Vite in cambio di denaro, che riempie le tasche di chi governa in Afghanistan.
Una di queste è quella di Seema e Najib, nomi di fantasia per motivi di sicurezza. Najib viveva nella provincia di Baghlan, Nord est dell’Afghanistan. Una vita difficile, rischiosa, come pertutti qui, da conquistare giorno per giorno. La moglie e la madre sono insegnanti di scuola elementare. Non è un posto di lavoro tranquillo, no. Le scuole non piacciono a fondamentalisti e talebani e ancora meno piacciono le donne che lavorano, che si danno da fare per dare ai bambini e soprattutto alle bambine, la libertà di  n’istruzione dignitosa, che apra qualche, pur piccolo, spiraglio nel loro futuro.
Arrivano le minacce, le intimidazioni, sempre più pressanti per le due donne. Le uccideranno se non smettono di fare il loro lavoro. Così è scritto nell’ultima lettera lasciata a casa loro dai talebani, con tanto di firma. Nessuna delle due cede. La giovane moglie di Najib continua ad andare al lavoro nel capoluogo, ogni giorno.Torna da scuola quella mattina, ha fatto la spesa per i suoi figli, cammina sovrappensiero. Un motorino si avvicina, nella polvere, nel caos quotidiano. Lei non se ne accorge nemmeno. L’uomo apre il fuoco a bruciapelo e la uccide in mezzo alla strada. Najib ha tre figli maschi, piccoli, e deve continuare a vivere per loro. Il padre ha un minimarket e lui lavora lì. Tira avanti così, per i bambini. Un giorno, due anni dopo, nel suo negozio arriva Seema, giovanissima, timida e con il più dolce dei sorrisi.

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Una storia d’amore. I due si innamorano e Najib crede di potersi ricostruire una vita. Ma Seema appartiene a una famiglia ricca e potente che possiede molte terre e ha già altri piani per lei. La sua vita, come sempre in Afghanistan, è merce di scambio. E’ promessa a un altro uomo, scelto dal padre. Najib manda i suoi genitori, com’è nella tradizione, a chiedere la sua mano, una, due, tre volte. Niente da fare, non lo vogliono. Non ha né soldi né potere e non avrà sua figlia. Seema si dispera e rifiuta il marito imposto. Il padre la chiude in casa. Non può né uscire, né comunicare con il suo amore. Un mattino, a casa di Najib, arriva la madre di Seema, la prima delle due mogli del padre. Chiede aiuto, piange. Ha paura che il marito, come ha promesso, porti la figlia in un’altra città, da sua madre, dove si celebrerà il matrimonio.
In fuga. Najib non ci pensa neanche un attimo. Vende il negozio e organizza la fuga della donna che ama, con l’aiuto di sua madre.’L’unica colpa di Seema era di essere innamorata di me. Era questo il suo peccato, imperdonabile per loro.’ Così dice Najib, con una piega amara nel viso segnato. Una fuga urgente.I parenti cercano di uccidere Seema, per la sua ostinata ribellione. La fuga ha successo e i due giovani si sposano in fretta, di  ascosto, nella moschea più vicina. Partono subito, insieme, per un’altra città. Fannoperdere le loro tracce. Hanno un visto per il Tagikistan.

Lì prendono la via dei clandestini. Contattano i trafficanti che li portano, attraverso l’Uzbekistan e il Kazakistan. Viaggiano in treno, ma soprattutto a piedi, gli affidano la loro vita. Approdano in Russia. Ma non è lì che vogliono andare e si accordano per
arrivare in Inghilterra. I trafficanti intascano gran parte del denaro della vendita del negozio e promettono di farli arrivare nel Regno Unito. Ancora un viaggio, lungo, senza poter vedere dove vanno. Li fanno scendere, sono arrivati, dicono: Inghilterra. Li scaricano lì, con gli occhi bendati, e spariscono. Quando Seema e Najib si tolgono la benda, scoprono di essere in Norvegia, da soli, senza parlare la lingua e senza sapere nulla di questo paese. Non sanno dove andare, cosa fare. I trafficanti sono irreperibili. Gli tocca restare lì. Inizia il percorso a ostacoli. Gli prendono le impronte e fanno domanda d’asilo. Sono certi di averne diritto. In Norvegia la loro vita resta sospesa, un limbo vuoto, incerto, di un anno e mezzo.
Disperati, in Norvegia. La prima struttura che li ospita era un carcere, 20 anni prima, e ne conserva il tetro squallore. Un posto molto isolato, in mezzo a un bosco, dove è difficile procurarsi anche da mangiare. 150 rifugiati, tutti maschi, tranne Seema. Una condizione difficile, un tormento per la giovane donna, ha paura, Najib non può lasciarla nemmeno per un attimo. Intanto dall’Afghanistan arrivano brutte notizie. La famiglia di Seema non demorde, vuole vendetta. La fuga della ragazza, la ribellione, il rifiuto del matrimonio sono una vergogna che si cancella solo con la punizione di Seema e dell’uomo che l’ha portata via. In loro assenza, si accaniscono sulla famiglia di Najib.
La sorella di 15 anni scampa per un pelo a un attacco e i suoi figli sono continuamente minacciati. I nonni, genitori di Najib, sono costretti a fuggire con i bambini
in un’altra città dove le difficoltà sono molte, economiche e psicologiche. Il padre sta male. Najib non dorme la notte, tormentato dalla paura per i suoi. Seema si strugge, pensando alle disgrazie che la sua scelta d’amore ha portato a tutti. Dopo due mesi e mezzo sono convocati dal Centro Immigrazione, un incontro via Skype. Poche domande, pochi minuti di conversazione.’Come potevo fargli capire la nostra situazione così in fretta, con la difficoltà della lingua?’ dice Najib. Infatti non la capiscono affatto. Sono
le tre di notte, tre giorni dopo, i due sposi dormono vicini, nel loro letto. Sentono dei passi, dei rumori forti, la porta è spalancata con un calcio e tre poliziotti entrano nella stanza, mostrano le tessere eannunciano la bella notizia: saranno rimpatriati in Afghanistan, non hanno ottenuto il diritto d’asilo.
La paura, le botte. ‘Non ci hanno dato nessun documento, nessuna spiegazione. Quel momento, dice Najib, è stato per noi insopportabile. Per la nostra cultura è una vergogna, un’offesa grave, un atto brutale per la famiglia, per mia moglie. Io rispetto le leggi dell’Europa, ma anche loro devono rispettare noi. Potevano scegliere un modo migliore, questo sì.’ Li portano in un nuovo campo. Chi cerca di scappare viene picchiato. E’ successo, davanti ai loro occhi, a una famiglia, che si era nascosta in cantina per tentare la fuga. Poi, di nuovo, vengono trasferiti. Sono sempre sorvegliati da una guardia, che gli prende i documenti e tutto quello che hanno in tasca. Un’altra città, un altro campo. ‘Eravamo vicini all’aeroporto, dentro ai containers. 250 rifugiati, che venivano da Iraq, Siria, Afghanistan. Ci hanno portato al posto di polizia e lìabbiamo dovuto firmare tutte le carte per il rimpatrio e ci hanno consegnato il foglio di rifiuto dell’asilo politico.’ Rimangono in questo campo cinque mesi. Russia e Norvegia si rimbalzano la palla.

Tra Norvegia e Russia. I Norvegesi li vogliono mandare in Russia , dove sono arrivati all’inizio della loro fuga, e i Russi non li vogliono. Il tira e molla non si risolve in fretta e, intanto, cambiano ancora città, al confine con la Danimarca. Vivono in un piccolo appartamento con altre sei famiglie, uno sull’altro. Ma non si lamentano, loro non si lamentano mai. Tengono duro. ‘Andavo ogni giorno all’ufficio immigrazione per chiedere cosa ci facevamo lì, cosa sarebbe stato di noi. Non potevamo né lavorare, né studiare, non avevamo nulla da fare. Loro mi hanno risposto che la nostra vita in Norvegia finiva lì. Saremmo tornati in Afghanistan. Non avevamo nessun’altra possibilità. Ero disperato e ho chiamato mio padre. Cosa dovevamo fare? Lui mi ha detto di andarmene al più presto e di cercare di raggiungere l’Italia.Forse lì avrai un’accoglienza migliore, ha detto, forse potrai lavorare anche se non sarà facile.’ Hanno ancora un po’ di soldi e si mettono in viaggio. Non sono controllati e riescono a partire, prima con una nave, in Danimarca poi con il treno.

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L’arrivo in Italia. Approdano a Belluno e poi a Feltre. L’aiuto arriva da una cooperativa seria e affidabile che si occupa di loro. Finalmente raggiungono Santo Stefano di Cadore, un paese piccolo, chiuso da alte montagne, vicino al confine con l’Austria. La loro salvezza, sembra la fine dell’odissea. Incontrano la sindaca Alessandra Buzzi, una donna molto speciale che ha fatto del suo paese un’isola di accoglienza e solidarietà. Sono sistemati in un appartamento. Ma il sospiro di sollievo dura poco. Non è ancora finita. Seema è molto provata , spaventata, lo stress di tutti questi mesi di fuga ha lasciato nel suo corpo molte tracce. E’ malata, curata dai medici della cooperativa, depressa, infelice.Quando il marito esce per fare la spesa lei sta lì, davanti alla porta, ad aspettare il suo ritorno con la mente piena di oscurità. Ha paura che lui non ritorni,
che la lasci, si meriterebbe una donna migliore, pensa, o che venga portato via, che gli succeda qualcosa. Il colpo di grazia li raggiunge quando dalla Norvegia arriva l’ingiunzione. Li reclamano per rispedirli in Afghanistan. Quasi l’estradizione di un delinquente. Sono queste le regole. La notizia è troppo per Seema.E’ arrivata a Santo Stefano portandosi dietro un peso enorme. I figli di Najib sono in pericolo e lei
si sente profondamente in colpa per tutto questo. Oltre la guerra, in Afghanistan li aspettano le ritorsioni della sua famiglia che potrebbe ucciderli tutti, bambini compresi. E’ lei la causa di tutto, pensa. Non ce la fa più. Un pomeriggio, in cui è sola in casa, ingoia tutte le medicine che trova. Lo Xanax, prescritto a Najib che non riesce a dormire, quantità enormi di paracetamolo.

La disperazione, poi finalmente la speranza. In ospedale la salvano per un pelo, temono per la compromissione del fegato. Pian piano si riprende, sta meglio. Najib le sta sempre accanto, non la lascia mai. Quando provo a farle qualche domanda su quello che è successo, ‘la cosa brutta’ come la chiamano, scuote la testa, abbassa gli occhi, porta la mano, che trema leggermente , sul cuore. Non ce la fa, dice, il cuore le batte troppo forte, si mangia le parole.
La sindaca e la cooperativa hanno fatto ricorso e, dopo il tentato suicidio di Seema, ci sono probabilità di successo. Intanto, in Norvegia, cominciano a sentirsi delle proteste contro i rimpatri forzati. Il primo passo è ottenere che questi due giovani possano restare qui. Poi, naturalmente, il progetto sarebbe quello di far arrivare in Italia la famiglia di Najib, per liberarla dal pericolo che incombe sui bambini. Santo Stefano di Cadore, sotto le forti ali di Alessandra, è proprio il posto dove la speranza ha terreno per
crescere.

 

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*Cristiana Cella è giornalista, scrittrice e sceneggiatrice. Si occupa da anni delle donne in Afghanistan. Il suo ultimo libro, appena pubblicato, è “Sotto un cielo di stoffa – Avvocate a Kabul”  pubblicato dalla Città del Sole Edizioni

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