Afghanistan, ora non spegnete la luce. Un imperativo per chi vuole restare umano

Ora che l’Afghanistan è di nuovo in mano ai Talebani, i riflettori devono restare puntati su quel martoriato Paese.

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Donne in Afghanistan
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

31 Agosto 2021 - 17.17


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Ora che l’ultimo marine ha lasciato Kabul. Ora che gli Stati Uniti hanno posto fine, dopo 20 anni, alla guerra più lunga della loro storia. Ora che l’Afghanistan è di nuovo in mano ai Talebani, i riflettori devono restare puntati su quel martoriato Paese.

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Le considerazioni di Grandi

Non dimenticatevi dell’Afghanistan, della sua gente, di una tragedia umanitaria che è solo agli inizi. A lanciare l’accorato appello è l’Alto commissario dell’Unhcr (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) Filippo Grandi.

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Chi scrive ha avuto modo di conoscere Grandi quando era a capo dell’Unrwa, l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. Di lui ho sempre apprezzato, e non sono certo il solo, l’instancabile impegno, la competenza, il rispetto per i più indifesi. Sul piano della comunicazione, Grandi è una persona “moderata”, non a caccia dei titoli in prima pagina. Sa il valore delle parole e le usa con accortezza. Per tutto questo, le sue considerazioni sulla situazione in Afghanistan sono una chiamata alla responsabilità della comunità internazionale

“L’evacuazione da Kabul sta per terminare, ma siamo solo all’inizio di una crisi più grave – avverte l’Alto commissario dell’Unhcr -. Fuggire dal proprio Paese natale comporta uno straziante senso di perdita. Le scene verificatesi all’aeroporto di Kabul in questi ultimi giorni hanno suscitato un’enorme ondata di compassione in tutto il mondo di fronte alla paura e alla disperazione vissute da migliaia di afghani. Ma quando queste immagini scompariranno dai nostri schermi, continueranno a esserci milioni di persone che avranno bisogno di supporto da parte della comunità internazionale. Nell’esortare i talebani e tutte le altre parti coinvolte a rispettare i diritti umani, specialmente quelli di donne e bambine, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha detto che il mondo non distoglierà lo sguardo. Ma, finora, la nostra attenzione è stata troppo limitata. Gli sforzi compiuti per le evacuazioni hanno indubbiamente salvato decine di migliaia di vite e sono encomiabili ma sappiamo che quando i ponti aerei e l’attenzione mediatica svaniranno, la stragrande maggioranza degli afghani, circa 39 milioni di persone, resterà in Afghanistan. Hanno bisogno che noi – governi, operatori umanitari, semplici cittadini – restiamo al loro fianco per continuare ad aiutarli. Circa 3,5 milioni di persone sono già stati costretti a fuggire dalle violenze all’interno del Paese, di cui oltre mezzo milione dall’inizio di quest’anno. La maggior parte non può ricorrere a canali regolari per mettersi in salvo. E, nel mezzo di un’evidente emergenza che vede milioni di persone necessitare disperatamente di aiuto, la risposta umanitaria all’interno dell’Afghanistan continua a essere gravemente sottofinanziata. 

Tragedia umanitaria

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Alcuni afghani – prosegue Grandi – sono ancora sfollati all’interno del Paese, mentre altri, in seguito ai combattimenti, cominciano a fare ritorno alle proprie terre. Tutti fanno affidamento su programmi umanitari il cui dispiegamento deve essere intensificato in tempi rapidi.
Per alcuni afghani sarà inevitabilmente necessario tentare di mettersi in salvo oltreconfine. Devono poter esercitare il diritto di chiedere protezione internazionale e, a tal fine, è necessario tenere aperte le frontiere. I Paesi confinanti con l’Afghanistan accolgono rifugiati da decenni e hanno bisogno di ricevere maggiore sostegno. Oggi, potrebbero dover far fronte a nuovi afflussi dall’Afghanistan, continuando, allo stesso tempo, ad accogliere i rifugiati afghani le cui prospettive di fare ritorno nel paese si sono fatte più esigue, e altre persone che erano partite per ragioni familiari, professionali o mediche e non possono più ritornare in sicurezza.
Per quattro decenni, Pakistan e Iran hanno accolto milioni di rifugiati afghani. Sebbene un elevato numero di essi abbia fatto ritorno a casa dopo il 2001, sperando in un futuro migliore, questi due Paesi continuano ad accogliere circa 2,2 milioni di rifugiati afghani registrati, quasi il 90 per cento del totale. Mentre continuiamo ad appellarci affinché le frontiere restino aperte, è necessario che un maggior numero di Paesi condivida queste responsabilità sul piano umanitario, non ultimo in considerazione della situazione critica in cui si trova la Repubblica Islamica dell’Iran, alle prese con la pandemia.
I rifugiati avranno inoltre bisogno di soluzioni a lungo termine. La stragrande maggioranza potrebbe fare ritorno volontario quando le condizioni lo consentiranno e nel momento in cui lo riterrà più opportuno. Di fronte a questi numeri, l’opzione del reinsediamento in Paesi terzi – una soluzione destinata ai più vulnerabili affinché possano ricominciare le proprie vite in un Paese nuovo – rappresenta una possibilità solo per una minima parte di tutta la popolazione rifugiata nel mondo. Eppure, perfino per questo gruppo di persone più fragili, dopo 40 anni di incessante conflitto in Afghanistan, così come per altre crisi legate a migrazioni forzate nel mondo, il numero di posti di reinsediamento disponibili è ancora gravemente inadeguato.
È indispensabile garantire un numero maggiore di posti per il reinsediamento. Sono di fondamentale importanza, non solo per salvare vite umane, ma anche come dimostrazione di buona volontà e di sostegno nei confronti di quei Paesi che si sono assunti la maggior parte delle responsabilità nell’aiutare le persone in fuga. Mentre le persone di tutto il mondo accolgono gli afghani nelle proprie comunità e nelle proprie case, non possiamo dimenticare le persone rimaste indietro.
È nostro dovere rispondere con urgenza e con un piano efficace alle esigenze umanitarie critiche presenti in Afghanistan e nei Paesi della regione. Essere al fianco del popolo dell’Afghanistan significa essere al fianco di tutti gli afghani, abbiano essi tentato di fuggire oltre confine o stiano cercando di ricostruirsi una vita nel Paese. Le persone che hanno lottato per ottenere un posto sui voli di evacuazione dall’aeroporto di Kabul non sono diverse da quelle che potrebbero giungere alle nostre frontiere nelle prossime settimane o nei prossimi mesi. Negli ultimi giorni, abbiamo dimostrato vicinanza e solidarietà nei confronti degli afghani. Continuiamo a farlo. È arrivato il momento di dimostrare di essere davvero all’altezza dell’appello alla cooperazione internazionale espresso dalla Convenzione del 1951 sui Rifugiati e riaffermato nell’ambito del Global Compact sui Rifugiati.
I ponti aerei da Kabul cesseranno tra pochi giorni e la tragedia che si sta dispiegando non avrà più la stessa visibilità. Ma continuerà a costituire la realtà quotidiana per milioni di afghani.
Non volgiamo lo sguardo altrove. Una crisi umanitaria di entità molto più grave è solo all’inizio”, conclude Grandi.

È difficile immaginare come si evolverà la situazione, ma è indubbiamente necessaria una risposta immediata da parte di tutti. Sudipta Kumar, direttore nazionale di ActionAid Afghanistan, spiega: “Migliaia di famiglie fuggite dai loro villaggi, sono arrivate a Kabul, Mazar e Herat con nient’altro che i vestiti sulle spalle. Le donne incinte e le neomamme sono tra coloro che hanno più bisogno di aiuti. In un campo la nostra squadra di operatori umanitari ha saputo che circa 300 famiglie condividono un solo bagno. Tende della capienza di 10 persone vengono usate in 50. Siamo profondamente preoccupati, senza un soccorso immediato le famiglie pressate nei campi sfollati sono ad alto rischio di contrarre il Covid-19, inoltre siamo di fronte all’aumento della malnutrizione e ad una probabile crisi alimentare che si aggraverà da qui ai prossimi giorni”.

Quante persone lasceranno l’Afghanistan?

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Di grande interesse analitico è un recente report dell’Ispi. 

“Al momento è difficile fare previsioni sul numero di afghani che lasceranno il paese, sia in modo regolare che in altro modo. La guerra e l’instabilità degli ultimi vent’anni hanno provocato  2,2 milioni di rifugiati nei paesi confinanti, oltre a 3,5 milioni di sfollati interni. Inoltre, non è possibile tenere traccia di coloro che hanno attraversato i confini nazionali – gran parte dei quali sono controllati dai Talebani – nel caos seguito alla presa di Kabul, anche se è verosimile che molti afghani abbiano raggiunto il Pakistan o l’Iran, come accaduto nel corso del 2020. Secondo i dati dell’Unhcr , infatti, l’anno scorso il Pakistan ha accolto un milione e mezzo di afghani, mentre l’Iran ne ha accolti 780mila. L’emergenza migratoria sarà quindi innanzitutto regionale ed è per questo che alcune proposte, come quella della cancelliera tedesca Angela Merkel, mirano a sostenere i paesi dell’Asia Centrale, ed evitare che si generino flussi migratori gestiti dai trafficanti.
Infine, le operazioni di evacuazione che andranno avanti fino a fine mese porteranno in Occidente solo alcune decine di migliaia di afghani e la mancata estensione della deadline non consentirà di portare in salvo tutti coloro che stanno cercando una via di fuga verso i paesi occidentali. È anche per questo motivo che si è tornato a parlare di corridoi umanitari, ma senza che venissero specificate modalità e tempistiche.

Corridoi umanitari: mito o realtà?

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Aiutare gli afghani è ‘un dovere morale’ dell’Unione Europea. Con queste parole   la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha definito sabato scorso l’impegno di cui i paesi membri dell’UE devono farsi carico di fronte alla crisi in corso, aggiungendo che la Commissione è pronta a fornire fondi agli stati che aiuteranno nel reinsediamento dei rifugiati, così come di fornire aiuti all’Afghanistan qualora venissero rispettati i diritti umani e delle donne nel paese. Parole però che si scontrano quasi subito con altre voci provenienti da alcuni paesi membri dell’Unione Europea. “Non è un dovere dell’UE e della Slovenia aiutare e pagare ogni persona del pianeta che scappa quando potrebbe combattere per la propria patria”, ha dichiarato l’indomani Janez Janša, primo ministro della Slovenia, paese che da luglio detiene la presidenza del Consiglio dell’UE. Janša appartiene al blocco europeo di leader politici di estrema destra anti-immigrazione, guidato da Polonia e Ungheria, che ostacolerebbe la creazione di corridoi umanitari. Una posizione però parzialmente condivisa anche dal presidente francese Emanuele Macron che sostiene la necessità di difendersi dell’Europa. In generale, in molti temono, per i prossimi anni, il ripetersi dello scenario del 2015, quando milioni di profughi siriani raggiunsero l’Unione Europea attraverso la cosiddetta “rotta balcanica”. Uno scenario che avrebbe dirette ricadute politiche sia per l’UE che per i singoli paesi membri. I leader europei, già molto distanti sul superamento del Regolamento di Dublino e sull’adozione di una politica migratoria comune, temono infatti il rinvigorirsi dei populismi dei partiti anti-immigrazione, soprattutto in vista delle elezioni in Germania e Francia”, rimarca il rapporto.

“Accoglienza sì, ma limitata – annota Di Matteo Villa, programma migrazioni Ispi.  Con un occhio ai pochi che arrivano ma non ai 300.000 che sono già qui irregolarmente e che, secondo alcuni governi europei (come quello austriaco), dovrebbero addirittura essere rimpatriati al più presto in Afghanistan.

A oggi gli stati UE di cui si conoscono le intenzioni potrebbero accogliere circa 20.000 afghani che hanno collaborato con loro nel corso degli anni. Tanti quanti la sola Londra e meno di un terzo rispetto agli Usa (65.000). Su tutto il resto, si vedrà.

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C’era da aspettarselo da governi europei che da anni guardano alle migrazioni come a una patata bollente di cui fare volentieri a meno. La risposta condivisa è solo una: esternalizzare, cioè sperare che gli altri paesi (più poveri ma più vicini) si facciano carico di gestire l’accoglienza. Sinora ha funzionato, ma il rischio è quello del 2015: rimandare il problema finché non diventi troppo grande per essere governato.”, conclude Villa.

Gli fa eco Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia -. Ci sono 400mila persone in fuga, la metà sono bambini: come facciamo ad assisterli? Quali sono le vie di accesso? Bisogna fare quello che non è stato fatto negli ultimi anni per Siria, Iraq, ovvero non bisogna spegnere la luce. Oggi sul bagnasciuga siamo tutti indignati, ma tra un mese in campagna elettorale parleremo ancora di Afghanistan? Il corridoio umanitario può essere la soluzione per 18 milioni di persone in fuga? Bisogna salvare questa popolazione, che negli ultimi 20 anni si è trovata in una condizione difficile, a differenza di altri scenari complessi dove ancora restano le truppe straniere, in Afghanistan non c’è stata quella osmosi con la popolazione che porta al nation building. Vanno aperte le vie di accesso interne, continuare con altre Ong il nostro lavoro, l’obiettivo è salvare vite di bambini e bambine dialogando con tutti”.

Corridoi umanitari. Sì, ma non basta

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“È presto per i corridoi umanitari – sottolinea in proposito Iacomini – Abbiamo verificato che è un’azione efficace ma che non copre i numeri di un esodo, rischia anche di essere una misura discriminante rispetto a una popolazione enorme in difficoltà. Portiamo fuori 18 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza? Quando parliamo di corridoi parliamone con cognizione di causa, oppure facciamoli tutti. E poi: chi facciamo uscire? In base a quale criterio? E tutti gli altri? Perché non ci ascoltano? Perché non si dice che i riflettori vanno accesi sulla crisi umanitaria, devono misurare i talebani su come risolvere l’emergenza umanitaria, poi devono parlare tra di loro, in terza battuta ci sono i corridoi umanitari. Poi c’è il tema dei diritti umani e anche su questo come vigiliamo? Non spegnendo la luce come abbiamo fatto sistematicamente?”.

Afghanistan, non spegnere la luce. E’ un imperativo per chi vuole restare umano.

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