"Il rinnegato": il romanzo storico di Ariel Toaff che attraversa l'ebraismo

Ambientato all’inizio del XIX secolo in un contesto non consueto, il protagonista è David Ajash. Rabbino di origini algerine, nato e cresciuto in Italia, che conduce una vita particolarmente spregiudicata.

Ariel Toaff
Ariel Toaff
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12 Ottobre 2021 - 10.28


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di Antonio Salvati

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Ariel Toaff è tornato in libreria. Questa volta con un giallo letterario, Il rinnegato (Neri Pozza 2021, pp. 188, € 18), dove non mancano chiari riferimenti storici e autobiografici.

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 Toaff è uno storico, professore emerito presso l’Università BarIlan di Ramat Gan. Ed è figlio e nipote di rabbini: suo nonno Alfredo lo fu a Livorno e suo padre Elio è stato rabbino capo di Roma per mezzo secolo. Utilizza per la prima volta l’espediente letterario per raccontarci, in maniera accessibile a tanti, della Kabbalah e del misticismo ebraico. 

Infatti, il romanzo – seppur impregnato della dottrina ebraica e pieno di molteplici significati – è indubbiamente leggibile, scorrevole. Pertanto, un esempio riuscito di come il romanzo arriva là dove non arriva la narrazione storica: la storiografia nel suo complesso sarebbe più povera senza il romanzo. Tanti grandi romanzieri – anche inconsapevolmente – hanno saputo gettare uno sguardo totale sulla realtà, sul mondo.

Molti ricorderanno il suo saggio controverso Pasque di sangue (Il Mulino), uscito oltre dieci anni fa. Il libro che indagava sul tema del sacrificio umano anticristiano all’interno dell’ebraismo ashkenazita medievale, il famigerato “mito del sangue”, gli procurò feroci polemiche, soprattutto da parte della comunità ebraica e del padre Elio Toaff. 

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Lo ripubblicò l’anno successivo con l’aggiunta di alcuni chiarimenti che andavano a spiegare equivoci e facevano luce sui metodi della ricerca storiografica. Poco dopo scrisse un altro saggio, Ebraismo virtuale (Rizzoli), anch’esso accompagnato da accese diatribe. Ariel Toaff metteva in discussione un elemento fondante dell’identità ebraica: l’antisemitismo (e soprattutto l’Olocausto). Secondo Toaff, «l’insistenza sull’Olocausto, e il conseguente vittimismo consolatorio, hanno sviluppato un ebraismo virtuale, passivo e autoreferenziale, che ha un peso non solo politico ma anche culturale: annulla tutto ciò che è accaduto prima e dopo la Shoah, ed è il principale responsabile dell’incapacità degli ebrei della diaspora di confrontarsi con temi più urgenti, come il ruolo di Israele e l’inadeguatezza attuale di una coscienza storica consensuale e monolitica».

Indubbiamente, nel primo libro di narrativa di Toaff riecheggiano l’esperienza professionale e di vita dell’autore. Solo uno storico come Ariel Toaff poteva fornirci un affresco chiaro e affascinante degli ambienti e delle atmosfere ebraiche ottocentesche. Similmente come Eco aveva fatto col Medioevo, accompagnandoci, con Il nome della rosa, in un monastero medievale del XIV secolo. 

Il rinnegato è ambientato all’inizio del XIX secolo in un contesto non consueto. Il protagonista, il rinnegato, è David Ajash. Rabbino di origini algerine, nato e cresciuto in Italia, conduce una vita particolarmente spregiudicata. Non crede in niente e a un certo punto diviene per opportunismo un convinto sostenitore del cristianesimo. Il suo corpo privo di vita viene ritrovato sotto un ulivo a Nablus in Palestina. Asjah verrà trovato morto sotto un ulivo a Nablus in Palestina, perché non poteva che finire così: «certi uomini ad aggiustarli si fa peccato». 

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La vicenda è caratterizzata da un manoscritto, una sorta di diario-testamento, che il rabbino David Ajash – morto di morte violenta (omicidio o suicidio?) – fa arrivare al figlio, Moisé, apprezzato rabbino e studioso della Torah. Tra i due da lungo tempo i rapporti si erano interrotti. Moisé non perdona il padre di aver condotto un’esistenza moralmente dissoluta. Moisé accusa il padre – che crede solo nella Kabbalah, l’unico orientamento per comprendere un mondo assai confuso – di aver abbandonato la sua famiglia, di aver derubato la sua gente, di aver tradito la sua fede per diventare un vecchio puttaniere. Per David Ajash «l’abiezione è una scala che non conosce fine e va sempre più giù, fin dentro le viscere della terra». 

È doloroso per Moisé leggere il manoscritto del padre. Lo legge sforzandosi «di trovare in queste righe il riverbero di anni lontani, […] cercando di ignorare la stupida insistenza con cui mio padre parla di magia, per ritrovare tra un talismano e l’altro la storia dei miei avi, il ritratto di una famiglia e di una comunità che non ho mai conosciuto e che, crescendo, non ho avuto occasione di rivivere, se non in spizzichi e frantumi e attraverso il racconto di mia madre». E con la consapevolezza che «il destino dei figli coscienziosi, […] condannati dalle buone maniere, dalla pietà e dalle regole», è quello di essere «costretti a erigere monumenti a padri indegni». Moisé sa bene che certe ferite – soprattutto se aperte in tenera età – «possono segnare il cammino di un uomo, allontanandolo dal sentiero tracciato della parola di Dio». Comprende anche quanto le vicissitudini della vita possano aver pesato nella formazione di suo padre, nella sua decisione di vivere il suo credo con grande libertà. «Ma fino a che punto possiamo pretendere di godere di piena assoluzione davanti al tribunale di Dio? Quanto possiamo appellarci alla sua clemenza? Quante volte possiamo rinfacciargli i torti subiti e fargli presenti gli ostacoli che lui stesso ha posto sul nostro cammino? Un uomo dovrebbe essere pronto a pagare per i propri errori, al di là di ogni attenuante. E mio padre, che nonostante tutto è stato un rabbino, non può aver vissuto coltivando eternamente l’illusione di essere immune all’ira di Dio. Tuttavia temo che in queste pagine troverò continua conferma del contrario».

Potremmo, in conclusione, sostenere che anche Toaff  non sfugge ad uno dei tratti fondamentali della questione dell’identità ebraica, ossia quella di considerare il passato come parte del presente. In tal senso, la memoria diventa spesso la chiave per definire la propria identità. Attraverso un’indagine a ritroso nella memoria spesso lo scrittore di origine ebraica cerca di raggiungere una migliore comprensione di se stesso e, conseguentemente, della propria ebraicità. In questo modo, la scrittura di memoria diventa anche un’azione di autoscoperta.

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 Avrebbe detto Elena Loewenthal che siamo il nostro passato, «lo portiamo addosso visibile e tangibile come parte della nostra quotidianità». Il passato ci aiuta, dunque, a capire chi siamo attraverso il ricordo di chi siamo stati. Come nella favola di Pollicino, ricorda la Loewenthal, ripercorrere la memoria significa «ripercorrere il cammino a ritroso racimolando quelle bricioline lasciate per terra» così da poter «capire fin dove si è arrivati».

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