Elezioni, il 24 non esce sulla ruota di Tripoli

Le elezioni in Libia del 24 dicembre sono state rinviate "a causa di problemi giuridici, politici e di sicurezza", ostacoli che se non verranno superati rischiano di rendere impraticabile la data del 24 gennaio:

Elezioni, il 24 non esce sulla ruota di Tripoli
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4 Gennaio 2022 - 17.06


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Il 24 non esce sulla ruota di Tripoli. Il 24 dicembre dovevano svolgersi le tanto incensate, dalla improvvida Europa, le elezioni presidenziali e quelle politiche. Nulla di fatto.

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E la storia rischia, ma è una quasi certezza, di ripetersi il 24 gennaio prossimo.

L’imbroglio continua

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Le elezioni in Libia del 24 dicembre sono state rinviate “a causa di problemi giuridici, politici e di sicurezza”, ostacoli che se non verranno superati rischiano di rendere impraticabile la data del 24 gennaio: lo ha detto il presidente della Commissione elettorale libica, Imad al-Sayeh, davanti al Parlamento riunito a Tobruk.  Il responsabile ha citato il disaccordo tra le parti in campo sui ballottaggi per oltre un centinaio di candidati.A complicare il percorso, anche l’alto numero di appelli sulle candidature, 26, dopo la bocciatura della Commissione. Una situazione “che oltretutto avrebbe minato la capacità di individuare frodi elettorali”. 
 Sul fronte della sicurezza, “nonostante un piano ambizioso, le autorità si sono scontrate con la realtà sul campo”, ha sottolineato affermando che se questi ostacoli persisteranno sarà impossibile tenere le elezioni il 24 gennaio, come proposto al Parlamento dalla stessa Commissione.

Azzardo europeo

Annota su treccani.it Michela Mercuri, docente universitaria e profonda conoscitrice della realtà libica: “Il premier italiano Mario Draghi  durante la conferenza di Parigi dello scorso novembre, aveva insistito affinché il Parlamento libico votasse rapidamente una norma chiara per il percorso elettorale, nel tentativo di evitare situazioni di caos dopo la prima tornata di voto. La Francia e altre potenze si erano, invece, dimostrate più favorevoli a votare comunque, anche senza una legge definitiva. Questo ha comportato l’impossibilità di escludere chiunque dalla candidatura, con il risultato che, ad oggi, sono quasi 100 i candidati. Tra questi svariati ex leader di milizie, uomini d’affari accusati di corruzione, ex membri dell’élite ai tempi del regime. Esempi che ci dimostrano come la semplice scelta delle candidature stia creando una serie di tensioni che potrebbero esplodere ancor prima delle votazioni o, magari, qualora vi fossero, subito dopo. La domanda è: come saranno recepiti i risultati dagli sconfitti? Le varie parti in competizione accetteranno di buon grado la sconfitta? Non dimentichiamoci che già nel 2014 il casus belli della guerra civile fu proprio il risultato elettorale non riconosciuto.

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C’è poi la spinosa questione degli attori stranieri ancora presenti “con gli scarponi sul terreno”, in particolare la Russia e la Turchia, con quest’ultima che ricopre un ruolo fondamentale nell’Ovest del Paese. Anche in questo caso, la domanda è: quale potrebbe essere la loro reazione al risultato elettorale? Ankara e le milizie ad essa affiliate accetterebbero la vittoria di un candidato dell’Est? E viceversa le potenze straniere che hanno interessi nell’Est accetterebbero la vittoria di un candidato vicino alla Fratellanza musulmana dell’Ovest?”.

Quel rapporto di AI

Il 22 dicembre 2021 Amnesty International  ha denunciato una miriade di violazioni dei diritti umani verificatesi in Libia nel periodo precedente le elezioni presidenziali, inizialmente previste per il  24 dicembre, e poi rinviate di un mese: un periodo segnato da contrasti sulla legge elettorale e sull’eleggibilità dei vari candidati. Nella dettagliata analisi resa pubblica oggi, l’organizzazione per i diritti umani ha rilevato come i gruppi armati e le milizie abbiano ripetutamente messo a tacere il dissenso, limitato lo spazio per la società civile e attaccato funzionari elettorali.

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Il ruolo non svolto dalle forze armate libiche. 

“Creare un clima elettorale libero dalla violenza e dalle intimidazioni – ha detto Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord – è pressoché impossibile se gruppi armati e milizie non solo beneficiano dell’impunità, ma vengono anche integrati nelle istituzioni statali, compresi i responsabili di crimini di diritto internazionale. Per avere elezioni libere, il Governo di unità nazionale e le Forze armate arabe libiche dovranno impartire alle milizie e ai gruppi armati loro sottoposti l’ordine di cessare immediatamente le intimidazioni e gli attacchi contro i funzionari elettorali, i giudici e il personale di sicurezza e di rilasciare subito le persone arrestate solo per aver espresso il loro punto di vista sulle elezioni”, ha aggiunto Eltahawy. 

L’irruzione nel palazzo di Giustizia. 

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Il 26 novembre Emad al-Sayeh, capo dell’Alta commissione elettorale nazionale, aveva espresso preoccupazioni sulla sicurezza in vista delle elezioni dopo che uomini armati avevano fatto irruzione in almeno quattro sedi locali, poi costrette a chiudere, interrotto la registrazione dei votanti e rubato le schede elettorali. Molti funzionari della commissione elettorale e della struttura del ministero dell’Interno, incaricata di mantenere la sicurezza in occasione delle elezioni, hanno denunciato di aver subito minacce.  A Sabha, uomini armati hanno circondato il palazzo di giustizia per interrompere il riesame dell’eleggibilità di un candidato.

Il rapimento di 21 giornalisti e attivisti.

 I gruppi armati e le milizie hanno rapito almeno 21 giornalisti, manifestanti e attivisti che sostenevano determinati candidati o avevano espresso le loro opinioni sulle elezioni a Tripoli, Bengasi, Misurata, Ajdabiya e Sirte. A Sirte, il 14 novembre, uomini armati affiliati all’Agenzia per la sicurezza interna, a sua volta legata alle Forze armate arabe libiche (un gruppo armato che controlla vaste zone dell’est e del sud della Libia), hanno arrestato 13 uomini, compresi giornalisti, per la loro presunta partecipazione a una manifestazione a sostegno della candidatura di Saif al-Islam Gheddafi. Sono stati rilasciati cinque giorni dopo. 

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Le forti rivalità nella campagna elettorale. 

Laila Ben Khalifa ed Heneda al-Mahdi, le due candidate alla presidenza della Libia, hanno subito molestie fisiche e insulti online. La campagna elettorale si è svolta in un contesto di profonda rivalità tra gli attori che competono per il potere in Libia sin dal 2014. Da quando a marzo sono stati annunciati i preparativi per lo svolgimento delle elezioni, il Governo di unità nazionale ha mantenuto a stento il controllo della situazione, mentre le Forze armate arabe libiche continuavano a controllare buona parte del territorio. 

L’ammissione del figlio di Gheddafi.

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 Delle 96 candidature presentate, la commissione elettorale ne ha inizialmente respinte 25 a causa di precedenti condanne, doppia nazionalità, insufficiente numero di firme raccolte o motivi legati alle condizioni di salute. Sulle tre candidature principali – quelle di Khalifa Haftar, Saif al-Islam Gheddafi e Abdelhamid Dbeibah – sono stati presentati ricorsi su ricorsi. Il figlio dell’ex leader Muammar Gheddafi è stato poi ammesso nonostante sia ricercato dal Tribunale penale internazionale per crimini contro l’umanità per aver appoggiato la repressione ordinata dal padre durante le rivolte del 2011. 

Le accuse di crimini di guerra. 

Khalifa Haftar, le cui Forze armate arabe libiche hanno cercato per un anno dal giugno 2020 di estendere il loro controllo sulla capitale Tripoli e sull’Ovest del Paese, è stato a sua volta autorizzato a partecipare alle elezioni sebbene Amnesty International e altri abbiano accusato il suo gruppo armato ed altri alleati di crimini di guerra. Anche la terza candidatura, quella del primo ministro del Governo di unità nazionale Abdelhamid Dbeibah, è stata accolta. Amnesty International ha documentato crimini di diritto internazionale commessi durante il suo mandato dalle forze sotto il comando del Governo soprattutto ai danni di migranti e rifugiati.  

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Dieci anni di impunità

In Libia, l’impunità regna sovrana da oltre 10 anni. Nel 2012 una legge ha concesso piena immunità ai membri delle milizie per le azioni commesse al fine di “proteggere la Rivoluzione del 17 febbraio”. Il sistema giudiziario libico non funziona ed è inefficace: giudici e procuratori rischiano di essere sequestrati e assassinati semplicemente per il fatto di svolgere il loro lavoro. L’accertamento delle responsabilità resta una chimera, anche per i crimini commessi durante il regime di Gheddafi. Come il massacro del 1996 nella prigione di Abu Salim. I tentativi di portare di fronte ad un Tribunale i funzionari agli ordini di Gheddafi sono stati caratterizzati da gravi violazioni dell’equità dei processi, da torture e sparizioni forzate

La Libia entrata nell’undicesimo anno post-Gheddafi, è  un Paese senza pubblici poteri riconosciuti e credibili. Intanto la società civile libica, secondo diversi segnali colti da operatori umanitari, tende a percepire e valutare la situazione che si è creata in modi molto diversi: c’è chi crede di assistere ad una cospirazione internazionale – come del resto la cronaca degli avvenimenti ci conferma – che ha lo scopo di ridisegnare i perimetri di influenza nella regione. C’è poi chi invece ritiene che la “rivoluzione” di 10 anni fa, di fatto, ha raggiunto i suoi scopi. Altri ancora tendono a giudicare solo in base a quello che oggettivamente oggi si vede: un Paese allo sbando, insicuro, senza istituzioni e pubblici poteri riconosciuti solidi e credibili.

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I veri player

Ovvero Vladimir Putin e Racep Tayyp Erdogan.

Secondo gli analisti della Nazioni Unite, contractor militari russi sono impegnati in Libia in operazioni “su vasta scala” — dal training al fronte — per sostenere le ambizioni politiche armate di Haftar.  Ci sarebbero tra gli 800 e i 1200 uomini del gruppo Wagner, che operano attivamente in Libia almeno dal 2018. Tra questi ci sono anche una quarantina di cecchini in prima linea sul fronte tripolino. Sono ex forze speciali che mesi fa hanno fatto la differenza pro-Haftar, e da quando hanno un po’ allentato le attività il capo miliziano dell’Est ha iniziato a indietreggiare.

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Nel report ci sono le immagini di questi professionisti della guerra e prove tecniche circostanziali, come la presenza in Libia di granate Vog-25 da 40 mm, che sono state utilizzate dagli agenti Wagner nell’Ucraina orientale e in Siria.

Le analisi sono state effettuate dagli esperti dell’Onu che monitorano le sanzioni contro la Libia — sottoposta a embargo dal 2011, misura costantemente violata su entrambi i fronti, e ora oggetto del controllo della missione navale europea Irini  attivata da pochi giorni. Il report è la prima ampia analisi delle Nazioni Unite sui mercenari russi, ed è stato visto da Bloomberg in anteprima.

Un’entità collegata a Wagner si è impegnata in una “campagna altamente sofisticata ed estesa sui social media” per sostenere Haftar e le sue operazioni a terra, ha osservato il gruppo di analisti onusiani, aggiungendo che le “operazioni psicologiche” sono vietate sotto l’embargo sulle armi delle Nazioni Unite. Uno sforzo simile è stato intrapreso per sostenere Saif Al-Islam Gheddafi, il figlio del defunto dittatore, considerato il cavallo su cui Mosca ha puntato in Libia.

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Ora, non è certo un segreto che in Russia non si muova foglia che lo “Zar” non voglia: e la recente “scomparsa” dal campo di battaglia dei mercenari russi, era un messaggio molto chiaro che un adirato Putin ha indirizzato ad Haftar: se credi di potercela fare da solo, accomodati pure, ma scordati del sostegno russo, diretto o indiretto. Haftar ha capito e si è adeguato. Per il capo del Cremlino, l’ex ufficiale, neanche tra i più capaci, di Muammar Gheddafi, può al massimo aspirare ad essere, per Mosca, l’Assad libico, vale a dire lo strumento di una politica imperiale russa nel Mediterraneo.

I soldi che circolano in Est Libia sono stampati in Russia. Il danaro stampato a Tripoli può circolare soltanto in Tripolitania. Gli interessi sono evidenti.

La torta petrolifera

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Ciò che sta davvero accadendo in Libia è la “Grande spartizione” tra il Sultano e lo Zar. Russi e turchi sono pronti a spartirsi la Libia e a esercitare la loro crescente influenza nel Mediterraneo Occidentale. E’ questo che dicono le manovre aeronavali turche a largo delle coste libiche e lo schieramento dei jet russi nella base di Jufra che, secondo alcuni, hanno parzialmente sostituito i mercenari della Wagner. Ankara vuole insediarsi in Tripolitania, Mosca punta a farlo in Cirenaica. Ma dopo mesi di una campagna militare impantanata, la Russia ha ritirato il suo supporto decidendo di negoziare con Ankara i futuri assetti del paese e le relative zone di influenza. Tutto è dunque deciso? Non ancora, si legge in una documentata analisi analisi dell’Ispi, perché ci sono temi su cui i due paesi, entrambi impegnati in Libia, si trovano su sponde decisamente opposte: la Russia vuole fermare l’avanzata delle forze di Tripoli prima che raggiungano Sirte e, soprattutto, vuole garantirsi un avamposto militare in Cirenaica. Ankara frena, e dalla sua posizione di forza cerca di assicurarsi la base di Al Watyah e il porto di Misurata, rispettivamente a ovest e a est di Tripoli. Dagli equilibri che si raggiungeranno dipende l’assetto della Libia di domani che, ancora una volta, non si deciderà né a Tripoli né a Bengasi, prosegue il documento. Da tempo infatti quella in Libia si è trasformata in una guerra per procura dove sono gli attori esterni, regionali, e globali, ha determinarne gli scenari e i possibili compromessi.

Un progetto di spartizione della Libia che, secondo indiscrezioni, sarebbe partito allora e finalizzato in un vertice segreto tenutosi a Malta a fine ottobre 2020. La posta in gioco non è solo il controllo degli idrocarburi gestiti dalla Noc (National Oil Corporation) con importanti contratti all’Eni, è in gioco, ma l’intero asse mediterraneo. 

E c’è ancora chi gioca alle elezioni.

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