Morti a Gaza, razzi su Israele: una sanguinaria e annunciata coazione a ripetere

Dopo due giorni di attacchi aerei, di case rase al suolo, di lancio di decine di razzi dalla Striscia di Gaza e di israeliani rimasti nei rifugi antiatomici

Morti a Gaza, razzi su Israele: una sanguinaria e annunciata coazione a ripetere
Bombardamenti israeliani su Gaza
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

7 Agosto 2022 - 15.06


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Vuoi dimostrare al cittadino-elettore di essere un duro? Che sulla sicurezza non temi confronti? Non c’è problema: bombardi Gaza, elimini il capo di una fazione estremista palestinese (sapendo che in un batter di ciglia sarà subito sostituito), riapri i rifugi sotterranei dove ripararsi dai missili sparati dalla Striscia, e il gioco è fatto. Un gioco di morte. Che è già costato la vita a 32 palestinesi, tra cui 6 bambini (un bilancio destinato a crescere). Così Israele. Vuoi mostrare che sei il più resistente tra i resistenti? Vuoi contendere ad Hamas la leadership del campo islamista palestinese, e alzando il livello dello scontro con il “nemico sionista”, accreditarti in qualche capitale araba o musulmana (una tra tutte, l’Iran)? Anche qui, nessun problema: usi la Striscia di Gaza come base missilistica e chissenefrega se poi a rimetterci sarà la disgraziata popolazione civile che da 16 anni vive isolata dal mondo, in una enorme prigione a cielo aperto, contando le guerre che ha dovuto subire…E questa è la Jihad islamica.

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La forza come surrogato della politica

A darne conto è un editoriale di Haaretz: “Dopo due giorni di attacchi aerei, di case rase al suolo, di lancio di decine di razzi dalla Striscia di Gaza e di israeliani rimasti nei rifugi antiatomici, si può dire “messaggio ricevuto”. Israele ha chiarito, come suo solito, che non rimarrà in silenzio quando la vita dei suoi cittadini è minacciata in qualsiasi modo; il Primo Ministro Yair Lapid ha superato la sua prima prova del fuoco e ha dimostrato ancora una volta che il centro-sinistra può anche condurre un’operazione militare; i mediatori egiziani sono stati rapidamente chiamati per ottenere un cessate il fuoco. Non resta che dichiarare la fine di questa serie di scontri. Israele si è trovato nello scontro attuale dopo il ben pubblicizzato arresto del capo della Jihad islamica nel nord della Cisgiordania, Bassam al-Saadi – arresto che ha motivato l’organizzazione a pianificare un attacco di rappresaglia contro Israele. Questa minaccia ha costretto le comunità israeliane lungo il confine con Gaza a una chiusura quasi totale, con divieti di lavoro, studio e incontri. Questa realtà non è nuova, così come non è originale la soluzione proposta dal governo. La risposta militare automatica si è radicata come un modello, anche se ogni volta fallisce nel raggiungere i suoi obiettivi. I numerosi scontri ci dimostrano che, nonostante la superiorità militare di Israele, la sua deterrenza è inefficace, e quando si tratta di guerra al terrorismo è molto difficile raggiungere l’obiettivo di interrompere il collegamento tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Gli israeliani hanno perso da tempo la fiducia nello slogan secondo cui le Forze di Difesa Israeliane sono pronte per qualsiasi scenario, e anche l’appello a distruggere le “infrastrutture del terrore” non può più essere preso sul serio. Così, le operazioni militari, decorate con nomi destinati a ispirare orgoglio e speranza come “Breaking Dawn”, “Protective Edge” e “Pillar of Defense”, sono trattate principalmente come misure destinate a garantire il prestigio dei governi che le hanno lanciate e a fornire una piattaforma per dichiarazioni sagaci e false promesse. Questi scontri hanno reso evidente che il dialogo diplomatico, l’aumento del numero di gazawi autorizzati a lavorare in Israele, l’ingresso di merci e materiali da costruzione da Israele e dall’Egitto e il trasferimento di denaro per gli stipendi hanno spesso fatto di più per prolungare i periodi di calma che non il dialogo di violenza tra Israele e le organizzazioni di Gaza. Ne è prova anche il fatto che Hamas non si è finora unito ai combattimenti a Gaza e i suoi sforzi per ottenere un cessate il fuoco con la mediazione egiziana. Hamas sembra riluttante a incoronare la Jihad islamica cavaliere della resistenza a Israele e cerca di tornare a una routine in cui è Hamas a dettare le regole. Sebbene Israele abbia dichiarato di non avere una data limite per la fine dell’operazione, ha esaurito la sua risposta militare. Deve unirsi agli sforzi diplomatici dell’Egitto per un cessate il fuoco e ripristinare la routine quotidiana per gli israeliani che vivono vicino al confine con Gaza”.

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Così l’editoriale di Haaretz.

Povera sinistra, che brutta fine hai fatto…

Lo racconta Gideon Levy, con la consueta, inarrivabile, maestria giornalistica.  “Così ha scritto il presidente del Partito Laburista Merav Michaeli, pochi minuti dopo che Israele ha nuovamente lanciato un’aggressione criminale sulla Striscia di Gaza, un attimo prima dell’uccisione del primo bambino palestinese, che non sarà l’ultimo: “I residenti di Israele meritano di vivere in sicurezza. Nessuno Stato sovrano accetterebbe che un’organizzazione terroristica assediasse i suoi abitanti. … Sostengo le forze di sicurezza”. Benjamin Netanyahu non aveva ancora reagito, Itamar Ben-Gvir non si era ancora svegliato, Yoav Gallant non aveva ancora minacciato la testa del serpente, e già il leader della sinistra sionista si allinea alla destra, saluta i militari e sostiene una guerra che non è nemmeno iniziata. Questa volta è arrivata addirittura prima di Shimon Peres.

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La Michaeli non può essere perdonata per la sua incredibile mancanza di consapevolezza: Dopo quattro giorni di blocco parziale volontario nel sud, la leader della sinistra dice che nessuno Stato accetterebbe un “assedio”. Senza battere ciglio, nessuno Stato. Un membro del governo responsabile di un orribile assedio durato 16 anni osa scandalizzarsi per una chiusura parziale volontaria di 2 minuti. Invece di sostenere la momentanea moderazione del governo, che è durata l’eternità della vita di una farfalla (il tempo passa, le elezioni sono vicine), il Partito Laburista sostiene ancora una volta una sciocca guerra di scelta, come hanno fatto tutti i suoi predecessori. La sinistra sionista dà ancora una volta un cattivo nome al concetto di doppio standard. Forse, almeno adesso, a un maggior numero di sostenitori del centro-sinistra cadrà la testa: Non c’è alcuna differenza reale tra esso e la destra. Israele non può più nemmeno fingere di non aver iniziato questa guerra – il cui nome infantile, Operazione Breaking Dawn, le è stato dato alla nascita – o di non avere scelta. Questa volta ha persino rinunciato alla sciabolata preventiva ed è andato dritto al punto: l’arresto di un leader della Jihad islamica in Cisgiordania, che sapeva in anticipo avrebbe provocato una dura reazione, e l’assassinio di un alto comandante nella Striscia di Gaza, dopo il quale sapeva che non c’era modo di tornare indietro, e Israele sta già conducendo una “guerra difensiva”, una guerra giusta di uno Stato a cui tutto è permesso. Il Paese amante della pace che vuole solo la sicurezza per i suoi abitanti – così innocente. Lo Stato che ha tutto, tranne la deterrenza: Non c’è niente o nessuno che possa dissuadere Israele dall’attaccare Gaza. Ma questa volta il governo è quello del “cambiamento e della guarigione”. Quindici mesi dopo l’ultima delizia, l’Operazione Guardiano delle Mura, è spuntata l’alba. Cinque settimane dopo l’insediamento della pistola più veloce dell’Occidente, il primo ministro Yair Lapid sta già mandando l’esercito in guerra. Mai nella storia di Israele un primo ministro ha avuto tanta fretta di uccidere. Tutti i casi di Netanyahu impallidiscono di fronte al crimine di lanciare una guerra inutile che non contribuirà ad altro che a un ulteriore spargimento di sangue, per lo più palestinese. E tutti i fallimenti di Netanyahu impallidiscono di fronte alla sua relativa moderazione nell’uso della forza militare mentre era in carica. Continuate ad agitarvi per i sigari – almeno Netanyahu non deve dimostrare le sue credenziali di macho, come fa Lapid. È vero che gli analisti, il vecchio club dei ragazzi e i sindaci del sud hanno premuto per questa guerra, come sempre, ma non c’è mai stata una capitolazione così rapida ai capricci per lanciare una guerra; a Israele non è stato concesso quasi un minuto per le appassionate esclamazioni in onda. Ora, quando solo pochi mesi separano un attacco a Gaza da un altro, non ha nemmeno senso chiedersi quali siano gli obiettivi. Non ci sono obiettivi, se non il desiderio di dimostrare che il nostro è più grande. Se ci fossero degli obiettivi, e se la tranquillità fosse uno di questi, e se questo fosse un governo di cambiamento, allora Lapid avrebbe dato una lezione di moderazione a Israele; e se Lapid fosse anche un coraggioso statista, avrebbe portato al cambiamento riconoscendo Hamas, togliendo l’assedio e facendo uno sforzo per incontrare la leadership di Gaza. Qualsiasi cosa meno di questo è una diretta continuazione delle politiche di tutti i governi di Israele, nel cui DNA scorrono guerre senza fondamento. Ecco perché non c’è bisogno di un governo di cambiamento. Basta ricordare chi ha iniziato questa guerra e chi l’ha sostenuta”.

Così Levy. Da incorniciare.

Coazione a ripetere

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La violenza come surrogazione della politica. Un primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che cerca di sopravvivere politicamente alle inchieste giudiziarie che lo chiamano in causa, giocando l’unica carta a sua disposizione: la sicurezza minacciata di Israele. Un movimento armato palestinese che ha fallito la prova di governo e che cerca una nuova legittimazione cavalcando la rabbia e la sofferenza, cercando nella resistenza all’”occupante sionista” il recupero della sua centralità. Hamas vince politicamente anche quando perde (ma neanche tanto) militarmente. Una popolazione in gabbia, ostaggio di due nemici che si sorreggono l’un l’altro, perché, da fronti opposti, conoscono e praticano lo stesso linguaggio: quello della forza. 

Il sangue versato a Gaza racconta una storia che non nasce ieri ma che si dipana nel corso di decenni e che ha nella Striscia uno dei suoi più tragici luoghi di attuazione. E’ la storia di quattro guerre, di bombardamenti, razzi, invocazione al diritto di difesa (Israele) e alla resistenza armata contro l’”entità sionista” (Hamas). E’ la storia di punizioni collettive, di quindici anni di assedio. Ma è anche la storia di un movimento islamico che, fallita l’esperienza di governo, cerca nuova legittimazione scagliando contro l’occupante con la Stella di Davide la rabbia e la sofferenza di una popolazione ridotta allo stremo. La guerra del 2014 andò avanti per 67 giorni, furono uccisi più di 2 mila palestinesi e 73 israeliani, soprattutto soldati. Al termine del conflitto, Hamas si dichiarò vincitore mentre Israele si ritirò con la convinzione di avere fatto danni sufficienti da garantirsi qualche anno di tranquillità.La storia si ripete.

  Da quando Netanyahu è salito al potere nel 2009, ha firmato “un patto non scritto con Hamas”, rimarca Haim Ramon, ex vice primo ministro e ministro della Giustizia, già laburista, poi di Kadima. L’accordo è stato progettato per contrastare l’Autorità nazionale palestinese (Anp) e il suo screditato leader, Mahmud Abbas (Abu Mazen), perpetuando la spaccatura tra Hamas a Gaza e Anp in Cisgiordania, e per mantenere il congelamento diplomatico, basato sull’affermazione che nessuno rappresenta tutti i palestinesi.

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Netanyahu ha mantenuto questa posizione durante l’offensiva aerea del novembre 2012 e la guerra di Gaza del 2014, durante la quale ad Hamas è stato offerto un cessate il fuoco non meno di dieci volte. Inoltre, dal 2012, Netanyahu ha lasciato che il Qatar trasferisse un miliardo di dollari a Gaza, di cui almeno la metà è andata a Hamas, compresa la sua ala militare. Per Netanyahu, c’è una ragione per tenere i cittadini di Israele ostaggio di Hamas: impedire che l’Anp torni a governare Gaza. Questo farà sì che il “disastroso” processo diplomatico non riprenda. Nel suo libro Contro il vento, Haim Ramon fornisce prove sostanziali che sostengono la sua affermazione su questo patto non scritto tra Netanyahu e Hamas. Le motivazioni di Netanyahu sono legate al suo impegno per l’idea della Terra d’Israele (Erez Israel) indivisa e al suo sforzo per prevenire la creazione di uno Stato palestinese. Il Jerusalem Post ha riportato il 12 marzo 2019 che Netanyahu, parlando al gruppo del Likud alla Knesset, ha detto che “chi è contro uno Stato palestinese dovrebbe essere a favore del trasferimento di fondi a Gaza, perché mantenere una separazione tra l’Anp in Cisgiordania e Hamas a Gaza aiuta a prevenire la creazione di uno Stato palestinese.” In un’intervista al sito Ynet (5 maggio 2019), uno stretto collaboratore del primo ministro, il generale Gershon Hacohen, ha detto che “la verità deve essere affermata: la strategia di Netanyahu è quella di impedire un’opzione a due Stati, quindi Hamas è il suo partner più stretto. Apertamente, Hamas è il nemico. Segretamente, è un alleato”.[…] È abbondantemente chiaro che il conflitto israelo-palestinese non è in cima alle priorità di Biden. Ma gli Stati Uniti sono così coinvolti nella sicurezza di Israele che disconnettersi non è possibile. E’ probabile che le prossime elezioni palestinesi, quando mai fossero fissate, solleveranno questioni serie. Una dozzina di mine legislative, dalle sanzioni ad Hamas al Taylor Force Act, già minacciano le intenzioni dichiarate del presidente americano Joe Biden di ripristinare i legami con l’Autorità nazionale palestinese, riaprire l’ufficio di Washington della delegazione dell’Olp, riprendere gli aiuti urgentemente necessari e rinnovare gli sforzi statunitensi per la pacificazione. Ma se le elezioni palestinesi prima o poi si terranno, la lista di Hamas potrebbe ottenere almeno il secondo più grande blocco di seggi nel Consiglio legislativo. Se Hamas è incluso in qualsiasi ramo del nuovo governo palestinese, le norme statunitensi che lo designano come organizzazione “terroristica” potrebbero forzare il taglio di alcuni o tutti gli aiuti destinati ai palestinesi (350 milioni di dollari all’anno all’Unrwa, 200 milioni di dollari per gli aiuti economici e umanitari). A meno che non si usino deroghe presidenziali per superare provvisoriamente le leggi statunitensi vigenti. Conclude Bahbah: “I circa quindici anni di governo inefficace e autoritario di Abbas faranno senza dubbio precipitare la disintegrazione di Fatah dopo il voto, quando che sia. Come molti altri palestinesi, sono stanco di essere guidato e rappresentato da un dittatore. Siamo un popolo intelligente, sminuito nella sua statura da cosiddetti leader autoproclamati, ignoranti, egoisti e non eletti. E ci sono troppi idioti ambiziosi che sperano di succedere ad Abbas. Al geriatrico Abbas non dovrebbe essere permesso di candidarsi alla presidenza. I palestinesi hanno bisogno di una leadership giovane, energica e creativa non segnata dalle accuse di corruzione dell’èra Abbas, dalla mancanza di trasparenza e dalla distruzione dei valori democratici e delle istituzioni palestinesi. Ancora peggio, Abbas ha agito come esecutore della sicurezza di Israele nelle aree controllate dall’Autorità e ha completamente fallito nel far avanzare il processo di pace o l’indipendenza palestinese di una virgola. I palestinesi di tutte le fazioni politiche non dovrebbero permettere ad Abbas di candidarsi alla presidenza dell’Autorità o a qualsiasi altra cosa. Il suo atto finale dovrebbe essere quello di dimettersi volontariamente. E se rifiuta di farlo, i palestinesi dovrebbero deporlo, anche contro la sua volontà e quella dei suoi surrogati.

Ho ritirato fuori dal mio archivio personale una parte di un lungo articolo che scrissi per Limes nel 2021, dopo l’ennesima estate di sangue vissuta a Gaza. Cambiate i nomi (invece di Netanyahu, Lapid, invece di Hamas, la Jihad islamica) ma la sostanza resta la stessa. Una sanguinosa coazione a ripetere. 

(prima parte)

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