Shakespeare torna a Firenze con "La dodicesima notte"
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Shakespeare torna a Firenze con "La dodicesima notte"

Al Teatro della Pergola va in scena una delle commedie più feconde del drammaturgo inglese. Ce ne parla il regista Pier Paolo Pacini

Shakespeare torna a Firenze con "La dodicesima notte"
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

4 Novembre 2023 - 21.23


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La commedia di Shakespeare La dodicesima notte è tra le opere più moderne del bardo inglese. Malgrado siano trascorsi oltre quattrocento anni dalla sua composizione essa continua a parlarci, a suscitare in noi riflessioni e interrogativi sul nostro essere umani, sul modo in cui ci percepiamo e ci rappresentiamo agli altri, sui temi della libertà individuale e di espressione. Non è dunque un caso che sia tra quelle più frequentemente messe in scena, e dal 7 al 12 novembre avremo modo di ammirarla ancora una volta, al Teatro della Pergola di Firenze, nell’allestimento curato dal regista Pier Paolo Pacini, coadiuvato ai costumi da Elena Bianchini, alle scenografie da Fran Bobadilla e alle luci da Samuele Batistoni. Il testo sarà rappresentato nella traduzione di Orazio Costa, “adattata” ai nuovi tempi da Filippo Gentili. Costa è stato tra i giganti dell’arte scenica, di cui fu anche fecondissimo pedagogo, e ripetutamente si confrontò con il testo shakespeariano, a partire dall’allestimento del 1944, nella romana Villa Giulia, che intese celebrare la Liberazione della capitale dal gioco nazifascista, e che vide tra gli interpreti Rina Morelli, Carlo Ninchi e Kiki Palmer. Gli eredi di cotanti attori saranno stavolta, in ordine di apparizione, Federica Lea Cavallaro, Federico Poggetti, Luca Pedron, Greta Bendinelli, Fabio Facchini, Federico Serafini, Manuel D’Amario, Maddalena Amorini, Giulia Weber e Davide Arena, che si misureranno con la grazia e l’incanto, il brio e l’eleganza della commedia, con la scoperta allusività allo scambio di genere e al travestitismo proposti dal fenomenale drammaturgo inglese, che certo intese scrivere un inno alla libertà in tutte le sue forme.

Alla rappresentazione si accompagneranno due eventi collaterali: giovedì 9 novembre, alle ore 18, è prevista una visita guidata gratuita al Laboratorio d’Arte del Teatro della Pergola aperta ai possessori del biglietto dello spettacolo; venerdì 10 novembre, dopo la recita prevista alle 21, ci sarà un incontro con la compagnia rivolto a ragazze e ragazzi sotto i trent’anni. Per ulteriori informazioni si rimanda al sito www.teatrodellatoscana.it.

Abbiamo intervistato il regista dello spettacolo, Pier Paolo Pacini, egli stesso già attore e drammaturgo, che oltre al teatro di prosa si è cimentato con ottimi risultati con la lirica, e che di Orazio Costa fu ammirato allievo.

Lei ha improntato l’attività di regista teatrale nel solco degli insegnamenti di Orazio Costa, ponendo particolare attenzione alla ricerca sulla parola e sul gesto scenico. In quest’ottica, in cosa si contraddistingue questo allestimento della Dodicesima notte di Shakespeare?


L’essere stato allievo di Costa e aver collaborato con lui anche successivamente alla fase di formazione attoriale ha voluto dire assorbire innanzitutto l’idea del ruolo centrale dell’attore nel fatto teatrale, e di conseguenza la convinzione che il teatro sia “teatro di parola”, inteso appunto come rapporto tra questa e il gesto scenico, con un’interazione continua tra i due aspetti. La maggior parte degli interpreti di questo allestimento sono stati allievi della Scuola per attori della Pergola che dirigo e formati secondo la pedagogia di Costa, per cui abbiamo lavorato su un linguaggio comune che ci ha permesso di mettere in scena un lavoro con una cifra stilistica molto precisa e con una leggibile coerenza tra i personaggi e la vicenda narrata.


Il dover contemperare l’atmosfera favolistica della commedia con un certo realismo psicologico dei personaggi crea particolari problemi nella direzione artistica?


Ho volutamente stabilito fin dall’inizio che il realismo psicologico dei personaggi dovesse essere secondario rispetto appunto all’atmosfera favolistica, caratterizzandoli sulla base del ruolo che hanno all’interno del meccanismo della commedia, in senso funzionale. Sono quindi più “caratteri” del tipo di quelli della Commedia dell’Arte che personaggi in senso classico, il che non ha voluto dire semplificarli ma definirli maggiormente attraverso appunto la loro funzione (comica, nobile, eroica e così via).


In questo allestimento Malvolio è interpretato da un’attrice: qual è il motivo di tale scelta?


In questa commedia ci sono dei temi che la rendono attualissima: penso a quello della distanza tra l’essere e l’apparire (il travestimento di Viola, la metamorfosi di Malvolio e anche il lutto non granitico di Olivia ci riportano alle identità ritoccate che la gente assume sui social), ma soprattutto al tema della fluidità di genere che in questo testo scorre con naturalezza: Viola si traveste da maschio, come maschio fa innamorare Olivia – che ne è attratta fisicamente perché intravede la femmina – e come maschio viene accettata da Orsino come sposa, prima di mostrarsi a lui come femmina. Per questo ho pensato che fare interpretare Malvolio da un’attrice fosse funzionale a questo tema e lo sottolineasse. Inoltre è una sorta di citazione a contrario del fatto che nel teatro elisabettiano i ruoli femminili erano anch’essi interpretati da uomini.


Da Mozart, a Verdi, a Puccini, lei ha messo in scena le maggiori opere della lirica. Quali sono nella sua esperienza le differenze più macroscopiche tra il teatro lirico e quello di prosa, dal punto di vista registico?


Le differenze riguardano principalmente il fatto che i cantanti agiscono all’interno di una griglia tecnica molto precisa, quale è quella data dalla partitura musicale. La potenza di questa griglia può illudere che essa sia sufficiente ai fini interpretativi. Ma non è così, perché oggi i cantanti hanno la stessa necessità degli attori di trovare una forma espressiva propria, autentica, non caratterizzata. Il lavoro con loro deve partire dalla condivisione della riflessione che anche se sono aiutati dall’elemento musicale che fa sì che dell’opera si accettino tutte le incongruenze non realistiche (a partire dalla prima e la più grande, il fatto di vedere persone che invece si parlare cantano) essi devono superare il limite che credono imponga loro il fatto musicale e interpretare, esattamente come gli attori.


Quanto è importante nella sua attività di regia l’esperienza maturata come attore?


Direi fondamentale, perché mi permette di essere in sintonia costante con la “fatica” dell’attore nella sua ricerca dell’autenticità e della sincerità che sono le basi senza le quali si rischia di fare solo un superficiale lavoro di caratterizzazione che si limita spesso a dire parole in modo più o meno funzionale ad una generica idea di quello che è il personaggio che si dovrebbe invece interpretare.


Oltre agli insegnamenti specificamente tecnici, come ricorda l’uomo Orazio Costa?
Costa è stato un gigante della pedagogia teatrale a livello europeo. Credo che ancora non si sia realizzato in pieno il valore della sua figura e del suo lavoro. Quello che posso dire è che contrariamente a come spesso è stato descritto, un uomo conservatore se non retrogrado (immagine creata da chi aveva l’interesse ad isolarlo per occupare lo spazio di assoluta preminenza che egli aveva nel panorama teatrale italiano nel dopoguerra), Costa era un uomo di straordinaria umanità e simpatia, con una naturale attitudine al gioco quasi rivoluzionaria rispetto alla “seriosità” del teatro che caratterizzava quegli anni. Era senz’altro un uomo severo, ma la sua severità era quella affettuosa del maestro che guida l’allievo su un percorso, quello dell’attore, che allora come oggi corre costantemente il rischio di essere superficiale e stereotipato, e quindi inutile.

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