di Lorenzo Lazzeri
Oggi, un eco di spari risuona nel silenzio della memoria tra le vie del centro storico di Bologna, un tragico anniversario: quello dell’assassinio di Marco Biagi, spietatamente trucidato il 19 marzo 2002 dalle Nuove Brigate Rosse. Aveva solo 52 anni e lasciava due figli piccoli che lo stavano attendendo per festeggiare la festa del papà. La sua colpa, agli occhi dei suoi esecutori, era quella di essere un fervente riformista, un uomo che, con la sua visione e il suo operato, cercava di innestare nel tessuto socio-economico italiano un dialogo proficuo tra la classe operaia, il governo e le aziende.
Biagi, professore di diritto del lavoro e consulente di spicco per il Ministero del Welfare e per la Commissione europea, perse la vita in un contesto di crescente tensione e conflitto, proprio nel momento in cui la sua figura emergeva come simbolo di un possibile cambiamento. Il suo impegno per una riforma del mercato del lavoro, mirante all’inclusione stabile e alla valorizzazione delle competenze individuali, era incentrata sull’elaborazione di un “Statuto dei lavoratori” che superava il valore del “posto fisso” mirando invece alla persona del lavoratore in carne e ossa attraverso politiche attive e dinamiche che garantissero meccanismi di protezione nelle continue e inevitabili transizioni occupazionali.
La visione di Biagi era innovativa e audace e puntava a superare le logiche di sfruttamento e di precarietà, promuovendo un modello di sviluppo in cui la dignità del lavoro e la sicurezza delle condizioni lavorative fossero pilastri inalienabili. Tale nuovo paradigma scontrava con la visione intransigente e radicale dei terroristi rossi, che in lui vedevano l’emblema di un riformismo inaccettabile, un allontanamento irreversibile dal percorso tracciato dalla loro radicale visione di lotta.
La morte di Biagi si inscrive in una serie di attacchi mortali contro figure chiave che hanno cercato sempre di mediare tra le diverse forze politiche e sociali in Italia. Similmente, Massimo D’Antona, un altro giuslavorista di spicco, fu assassinato nel ‘99 per la sua attività inerenti i diritti dei lavoratori, così come un ventennio prima, accadde ad Aldo Moro, segretario della Democrazia Cristiana, assassinato durante il tentativo di stabilire un compromesso tra le forze politiche allora fortemente polarizzate.
Moro, D’Antona e Biagi rappresentano l’impegno di mediazione e di moderazione civile, realizzato attraverso la loro personale idea di equilibrio, che avrebbe potuto condurre l’Italia fuori da un periodo di forte tensione sociale e politica, in contrasto con la visione rivoluzionaria dei terroristi. La brutalità dell’assassinio Biagi, davanti al portone di casa, non fu dunque un evento isolato, ma l’ennesimo capitolo di una storia di violenza, di lotta ideologica che ha segnato l’Italia contemporanea e lasciò una Bologna incredula e ferita.
Ricordarne la scomparsa significa non solo rendere omaggio a un uomo e un pensatore che ha sacrificato la vita per i suoi ideali di giustizia e progresso ma riflettere, tutti insieme, sulle ferite ancora aperte di una nazione che ha visto nel dialogo e nella mediazione strumenti deboli, troppo spesso soffocati dal rumore assordante delle armi.