Dividere i partigiani tra 'buoni' e 'cattivi': l'ultima disperata ridotta del revisionismo fascista e sovranista
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Dividere i partigiani tra 'buoni' e 'cattivi': l'ultima disperata ridotta del revisionismo fascista e sovranista

Se una linea va tracciata, è quella che divide fascisti e antifascisti. Non dirsi antifascista, barricarsi dietro fumisterie e ambiguità, equivale a proclamarsi fascista: Dante Alighieri riservava l’inferno agli ignavi.

Dividere i partigiani tra 'buoni' e 'cattivi': l'ultima disperata ridotta del revisionismo fascista e sovranista
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

25 Aprile 2024 - 01.07


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È avvilente che ad ogni ricorrenza del 25 aprile, il giorno della Liberazione dai totalitarismi che portarono al Secondo conflitto mondiale procurando lutti massacri e atrocità, il discorso pubblico sia sempre avvelenato dalla rimozione della storia, da cancerosi revisionismi che ribaltano la verità dei fatti. Il 25 aprile 1945 sancisce il trionfo della Resistenza che, con gli eserciti alleati, debellò la peste nazifascista, eppure puntuale ritorna il tormentone, sparso nelle menti istupidite d’un corpo sociale che ignora e financo ripudia il proprio passato, una storiella ammannita come da un capoclasse alla lavagna in un’aula di scolari, che divide i fascisti in “buoni” e “cattivi”, e, peggio ancora, la Resistenza in “buona” e “cattiva”, la prima essendo quella dei partigiani “bianchi”, la seconda di quei malfattori dei comunisti e socialisti, magari, per soprammercato, aggiungendoci pure gli azionisti.

I “buoni” che lottavano per la democrazia, e i “cattivi” per sostituire una dittatura con un’altra. Suona come un’idiozia, e lo è: il risultato di uno specioso uso pubblico della storia ad opera dagli eredi d’un fascismo che non si è mai voluto debellare, con risultati nefasti per le vicende repubblicane: l’accogliere in Parlamento una forza politica che ad esso apertamente si richiamava negli ideali e nella pratica; il travaso nella magistratura, nelle forze dell’ordine e nei gangli vitati dello Stato di elementi che avevano rivestito gli stessi ruoli durante il Ventennio; l’affermarsi dello scelbismo (la repressione violenta e antidemocratica di ogni dissenso, che giungeva sino a sparare sulla folla inerme), poi della stagione della strategia della tensione (insanguinare il Paese con stragi di Stato compiute da frange neofasciste appoggiate da servizi segreti deviati e intelligence di Paesi stranieri) per contrastare l’affermarsi democratico (poiché basato sulle consultazioni elettorali) dell’allora Partito Comunista; la mancata applicazione degli articoli della Costituzione con grave nocumento ai cittadini, e così via.

Quella Costituzione che, la storia insegna, fu figlia degli ideali resistenziali e frutto di un compromesso tra le forze di tutto l’arco politico esistente all’epoca in cui fu redatta ed approvata, dunque della Resistenza tutta. Per arrivare a sancire quella Carta diedero la vita, indistintamente, partigiani e combattenti di ogni schieramento, di ogni fede, di ogni estrazione sociale, intellettuali come gente di popolo, donne uomini e ragazzi, nel nome del supremo ideale della libertà. E a soffermarsi sul dato numerico, il sangue versato dai resistenti ritenuti “cattivi” da speciosi revisionismi è stato ben maggiore degli altri.

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Tracciare questa distinzione tra Resistenti “buoni” e Resistenti “cattivi” significa dimenticare, rimuovere, ignorare la storia: la cosiddetta “svolta di Salerno” dell’aprile del 1944, quando Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano, lanciò l’iniziativa e si adoperò per trovare un accordo tra i vari schieramenti antifascisti, la monarchia e il capo dell’Esecutivo Badoglio che consentisse la formazione di un governo di unità nazionale aperto ai rappresentanti di tutte le forze politiche presenti nel Comitato di Liberazione Nazionale, cioè l’organo che dirigeva la Resistenza, accantonando per il momento la questione istituzionale. Iniziativa che, con la mediazione di Enrico De Nicola, determinò il trasferimento di tutte le funzioni ad Umberto di Savoia, Luogotenente del Regno, e l’indizione di una consultazione elettorale per un’Assemblea Costituente, posticipando la scelta della forma dello Stato al termine della guerra.

I caporioni e i loro volenterosissimi servi che dividono il passato tra buoni e cattivi invertendo oscenamente i poli dimenticano, rimuovono ignorano che lo stesso Togliatti, vittima di un attentato in cui rischiò la pelle (14 luglio 1948), impedì con saggia misura che l’Italia sprofondasse nella guerra civile. Dimenticano, rimuovono ignorano che lo stesso capo comunista, in qualità di Ministro di grazia e giustizia, volle l’amnistia che porta il suo nome, provvedimento di clemenza (decreto presidenziale 22 giugno 1946, n.4) giustificato dalla necessità di un “rapido avviamento del Paese a condizioni di pace politica e sociale” e che estingueva le pene per reati comuni e politici, compresi quelli gravissimi di collaborazionismo con il nemico (cioè con i nazisti) e di concorso in omicidio. Provvedimento per più d’un verso improvvido, che costò lacerazioni interne e che riversò nelle strade la feccia nera, cioè i veri cattivi della storia.

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Dunque, se una linea va tracciata, è quella che divide fascisti e antifascisti. Non dirsi antifascista, barricarsi dietro fumisterie e ambiguità, equivale a proclamarsi fascista: Dante Alighieri riservava l’inferno agli ignavi.

È fresco uno dei tanti esempi dei danni procurati dal revisionismo, dell’incapacità (voluta, indotta, frutto di ignoranza poco importa) di leggere e interpretare gli eventi del nostro passato: l’incauto conduttore di una seguita trasmissione della Tv di Stato che in diretta nazionale loda e imbroda la scelta degli italiani che nel 1935 diedero al regime mussoliniano le proprie fedi d’oro, chiosando: “Pensate, tantissime famiglie hanno compiuto questo gesto veramente patriottico, quello di donare la fede matrimoniale alla Patria con una ricevuta e un anello senza nessun valore”.

La storia ricorda che la “Giornata della fede” fu proclamata dal regime il 18 dicembre del 1935 per sostenere i costi della guerra imperialista per la conquista dell’Etiopia (allora Abissinia), in risposta alle conseguenti sanzioni comminate all’Italia dalla Società delle Nazioni, una delle tante operazioni di propaganda della dittatura condite di manipolazioni atte a mascherare fatti bruti. Guerra coloniale in vecchio stile, fu particolarmente barbara: costò la vita ad almeno 275.000 etiopi, in gran parte civili, e quasi il doppio di feriti.

Le truppe italiane si macchiarono di massacri di civili inermi: su direttive di Mussolini, il Capo di Stato Maggiore Badoglio diede l’ordine di impiegare i gas tossici, poi largamente usati dal generale Rodolfo Graziani, che fece anche bombardare ospedali della Croce Rossa, oltre a impartire l’ordine di trucidare i religiosi del monastero etiope di Debre Libanõs, volontà operosamente eseguita dal generale Pietro Maletti (padre di una delle figure più fosche dell’Italia repubblicana, quel generale Gianadelio Maletti, capo del famigerato reparto D del Sid, l’allora Servizio segreto italiano, condannato con sentenza definitiva in una delle tante indigini sulle opache attività dei servizi segreti), che sterminò circa duemila persone, metà delle quali preti, monaci e diaconi, eroico atto per cui ricevette la promozione al grado di generale di divisione per “meriti eccezionali”.

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Azioni per le quali Graziani venne inserito dall’apposita nella lista dei criminali di guerra. Non fu mai processato, e nel 1949 la richiesta di estradizione presentata dall’Etiopia fu negata dall’Italia, che tuttavia lo processò e condannò a 19 anni di carcere per collaborazionismo: ne scontò appena quattro mesi, fu scarcerato ed aderì al Movimento Sociale Italiano, divenendone presidente onorario, morendo tranquillamente nel suo letto. 

Ebbene, lodare pubblicamente e far passare per “patriottismo” il “dono” delle fedi matrimoniali degli italiani per armare i cannoni e produrre gas venefici in una sanguinosa guerra coloniale di conquista di un Paese straniero è non solo scelta scellerata, ma è proprio il frutto di quella mancanza di conoscenza storica e del revisionismo che ammorba il discorso pubblico e il racconto del nostro passato, con il quale non abbiamo mai davvero fatto i conti.

Studiare la storia, raccontare i fatti per come si sono svolti, trarne insegnamenti per non ripeterne gli esiziali errori, è operazione imprescindibile per una democrazia autentica. Falsificare gli eventi, distorcerne i significati, deformare la verità per portare acqua al proprio mulino è operazione pericolosa, intellettualmente disonesta e moralmente indecente. Un popolo maturo e consapevole si dimostra capace di riconoscere le nefandezze della propria storia, di emendarle per evitarne il tragico ripetersi. Se questo è il segno della civiltà, il nostro è un popolo altamente incivile.

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