Dopo le armi, il grano. Così Vladimir Putin consolida il suo “protettorato” siriano. La nave ricompare
Ne scrive Eleonora Mureddu su europatoday.it: “
Dopo essere scomparsa dai radar per alcuni giorni, la nave cargo Razoni, con a bordo il primo carico di grano nell’ambito dell’accordo internazionale tra Ucraina e Russia, mediato dalla Turchia e dalle Nazioni Unite, è arrivato al porto di Tartus in Siria.
A rivelarlo sono le immagini satellitari di Planet Labs PBC analizzate da The Associated Press. La nave, battente bandiera della Sierra Leone, è partita dal porto di Odessa con il suo carico di 26mila tonnellate di mais il 1° agosto e non ha scaricato in Libano come previsto, ma si è oscurata (ha spento il transponder che trasmette i dati di localizzazione) prima di apparire a Tartus, a ovest del Paese governato da Bashar al-Assad, storico alleato di Vladimir Putin. La Razoni è stata la prima nave a salpare dal porto di Odessa, e probabilmente la più importante, dato che doveva aprire una rotta pericolosa e piena di mine. La sua destinazione finale sarebbe dovuta essere il Libano, un Paese in preda a una grave crisi economica. Secondo i media locali, sarebbe stata l’azienda importatrice a rifiutare il carico in ragione del grave ritardo accumulato, circa cinque mesi. È stato allora che la nave si è fermata al largo di Mersin, in Turchia, prima di sparire dai radar. Dopo due settimane di peregrinazioni nel Mediterraneo orientale, la Razoni è arrivata nel porto di Tartus. La nave cargo ha interrotto il suo segnale di trasmissione il 12 agosto a est di Cipro ed è stata avvistata quella mattina mentre si dirigeva verso il porto. Si è poi fermata all’ancora un paio di giorni prima di attraccare a Tartous”, ha spiegato al Financial Times Samir Madani, fondatore della società di ricerca TankerTrackers.[…]. La Siria ha riconosciuto come entità sovrane le regioni ucraine orientali separatiste di Donetsk e Luhansk, sostenute dalla Russia, inducendo Kyiv a interrompere i legami diplomatici con Damasco. L’Ucraina aveva precedentemente accusato le autorità siriane di aver sottratto almeno 150mila tonnellate di grano dalle scorte ucraine dopo l’invasione della Russia a febbraio”.
Così Madeddu.
Mani sugli aiuti umanitari
La Siria e i suoi alleati stanno tentando di far passare gli aiuti attraverso Damasco, il che renderebbe molto difficile per l’Onu e per i suoi partner umanitari la consegna di aiuti in maniera tempestiva e consistente. Il governo ha continuamente cercato di limitare le operazioni assistenziali attraverso prescrizioni di natura burocratica. Inoltre, ha “bandito” e perseguitato volontari con legami con le aree sotto il controllo dell’opposizione. Gruppi armati come Hay’at Tahrir al-Sham hanno anche ostacolato le organizzazioni umanitarie nello svolgimento concreto delle proprie attività. “L’ultima offensiva ha mantenuto un ripugnante modello di attacchi sistematici e generalizzati mirati a terrorizzare la popolazione civile. Intanto, è proseguito il prezioso sostegno militare della Russia, che ha anche condotto direttamente attacchi aerei illegali, nonostante le prove che esso stia favorendo crimini di guerra e crimini contro l’umanità da parte delle forze militari siriane”, dichiarava Heba Morayef, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.
Da Aleppo a Mariupol
Attacchi diretti ai civili e violazioni del diritto internazionale. Secondo Amnesty International la Russia nella sua guerra all’Ucraina sta usando le stesse strategie già utilizzate in Siria e Cecenia. Callamard, parlando a Parigi durante la presentazione del rapporto annuale di Amnesty, il 29 marzo, ha spiegato: “Gli spazi umanitari che dovrebbero permettere alle persone di fuggire… Proprio come in Siria, dove la Russia ha usato questa tattica in modo orribile, stiamo vedendo la stessa cosa qui. Fingono di creare passaggi umanitari che in realtà sono spesso trappole, trappole di morte”. L’organizzazione ha paragonato la città di Mariupol ad Aleppo, devastata dal regime di Damasco sostenuto da Mosca, denunciando “un aumento dei crimini di guerra” in Ucraina. Marie Struthers, direttrice regionale per l’Europa orientale e l’Asia centrale di Amnesty: “Molto tristemente, abbiamo documentato finora le stesse tattiche e gli stessi mezzi che sono stati usati in Siria e in Cecenia – più o meno la stessa tattica di ‘bruciare la terra’, usando munizioni che sono proibite dal diritto internazionale e attacchi diretti sui civili, su scuole, ospedali, appartamenti”
Siria, fronte sud dell’offensiva di Putin
Di grande interesse è l’analisi di Giuseppe Didonna per Agi. Scrive tra l’altro Didonna: […]. “L’entrata in scena delle truppe di Mosca ha costituito infatti il vero elemento decisivo che ha ribaltato le sorti di un conflitto che pareva già segnato. Quando nel 2015 i russi arrivarono in Siria il presidente Bashar el Assad controllava a fatica una Damasco circondata da milizie e gruppi di opposizione e isolata dalla parte della costa mediterranea del Paese a lui fedele.
Cinque anni dopo Putin, a colpi di artiglieria pesante e bombardamenti aerei, ha rimesso Aleppo e tutto il resto del Paese, con l’esclusione dell’area di confine con la Turchia, nelle mani del presidente siriano, procedendo con attacchi mirati che hanno riconsegnato al regime di Damasco la nazione pezzo per pezzo.
Inevitabile che da Assad giungesse il pieno supporto a Putin nella guerra contro l’Ucraina. Un sostegno non solo diplomatico: Damasco ha infatti annunciato l’invio di uomini. Sebbene non si abbiano notizie di questi ultimi dal fronte, già pochi giorni prima dell’invasione il ministro della Difesa russo Sergej Shoigu era partito alla volta di Damasco per discutere della “cooperazione tecnico-militare nella comune lotta al terrorismo”.
Il rappresentante del Cremlino ha assistito a una esercitazione militare, visitato l’aeroporto militare di Hemeimeem, la base navale di Tartus, l’unica di Mosca nel Mediterraneo, e preparato il terreno per la consegna e dispiegamento di aerei da guerra con missili ipersonici e lancia razzi con testate nucleari.
Una delocalizzazione di armamenti capaci di colpire fino in Europa, una mossa evidentemente mirata a tenere a bada i nemici in caso di una escalation del conflitto, ampliando notevolmente il fronte d’attacco proprio grazie alla Siria. Mosse che rivelano una strategia che non presuppone alcun disimpegno russo in Medio Oriente e che anzi include la Siria nel fronte di guerra, come se per Mosca si trattasse di un fronte unico, proprio mentre Assad non perde occasione di sfilare accanto alla bandiera russa e i gruppi ribelli siriani compaiono sempre più spesso al fianco della bandiera ucraina.
Mosca dunque non ha alcuna intenzione né interesse a cedere anche solo un millimetro del proprio mandato e potere acquisito in Siria. Dagli anni del suo intervento infatti la Federazione ha tutelato il regime di Damasco non solo all’interno della stessa Siria, ma anche presso le Nazioni Unite attraverso il proprio diritto di veto in Consiglio di Sicurezza. Dal 2015 a oggi la collaborazione tra Putin e Assad ha dato vita ad accordi economici, militari, energetici, edilizi e culturali, mentre l’aeroporto militare di Hemeimeem e la base navale di Tartus rimangono fondamentali per il fronte sud est su cui Putin agisce, tanto da essere protette dai sistemi di difesa missilistica s-300 e s-400 che Mosca ha piazzato più a sud.
Rimane un solo punto interrogativo sul futuro dell’impegno russo in Siria e riguarda il corridoio navale che Mosca aveva instaurato tra le basi navali del Mar Nero e Tartus, corridoio attraverso cui la Russia dal 2015 ha inviato uomini, navi da guerra e sottomarini in Siria e fatto valere il proprio peso nel Mediterraneo. Prima dell’inizio del conflitto in Ucraina, Mosca aveva radunato le proprie navi presso i porti del Mar Nero in previsione non solo dell’attacco, ma anche della probabile decisione della Turchia di chiudere gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo alle navi da guerra, in ottemperanza alla convenzione di Montreux.
Decisione poi effettivamente arrivata da parte di Ankara pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione e che non e’ destinata a incidere sulle sorti della guerra in Ucraina, ma che impedisce a Mosca di utilizzare quel corridoio navale per futuri rifornimenti verso Tartus e verso i propri contingenti e l’alleato Assad in Siria”.
Così Didonna.
Vladimir d’Arabia
Nel raccontare il presente è buona cosa riandare indietro nel tempo. E riprendere dall’archivio personale qualcosa che può dare conto di un’amara verità: le tragedie di oggi vengono da lontano. Rispolvero parti di un articolo che scrissi nel 2017: “La Siria – annota Rami Khouri nella sua rubrica su Internazionale – è il teatro del nostro sgomento, ma i protagonisti di questa triste storia sono le potenze mediorientali e straniere. I risultati sul campo sono modellati dal settarismo, dalla potenza militare e dal numero dei combattenti, non dai valori universali. Quando le forze aree di Putin si scontrano con l’umanesimo di Voltaire, non c’è storia. Vincono le bombe.[…] La comunità internazionale legge i conflitti aperti in Medio Oriente come Sunniti contro Sciiti?. Ecco, “Vladimir d’Arabia” scompaginare i giochi e riunire, in un vertice a tre, il presidente della Turchia, Recep Tayyp Erdogan (sunnita) e il presidente del più grande Stato sciita, l’Iran, Hassan Rohani. Ma sarebbe ingeneroso, oltre che errato, imputare al solo Trump l’emergere della Russia putiniana come asse centrale nella geopolitica mediorientale. Una parte di responsabilità, e non marginale, l’ha il predecessore del tycoon miliardario: Barack Obama, con la sua determinazione ad azzerare la presenza militare statunitense in Medio Oriente senza preoccuparsi del vuoto lasciato e di chi poteva riempirlo. Di fronte all’incedere delle Primavere arabe e della crisi di vecchi e fedeli alleati, come il presidente egiziano Hosni Mubarak, Obama decise di non decidere. E questo fu un messaggio devastante per i rais della regione: l’America ci lascerà soli. E allora, è meglio guardare verso Mosca. Perché lì regna un Presidente che le scelte le fa e le porta fino in fondo. Così è accaduto in Siria. Mentre gli Usa provavano ad armare una parte dei ribelli anti-Assad, Putin, assieme all’alleato iraniano, sceglie di puntellare il regime alauita e, nel frattempo, convincere il presidente-generale egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, come il turco Erdogan, che lui gli alleati non li lascia in braghe di tela ma anzi li arma, li sostiene al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, delinea con loro possibili spartizioni territoriali e di ricchezze naturali. Armi e affari: è la ricetta di Putin. Che fin qui ha pagato. La guerra all’Isis era diventata la priorità assoluta per il mondo libero? L’incubo peggiore aveva le sembianze di Abu Bakr al-Baghdadi? Dalla base russa di Hmeimin, in Siria, il “comandante Vladimir”, proclama la disfatta dello Stato islamico e poi incontra o il presidente siriano Bashar al-Assade il ministro della Difesa russo Serghiei Shoigu. La presenza russa in Siria è destinata a durare a lungo, visto che il presidente Putin ha ratificato un accordo con il governo siriano che consente alla Russia di mantenere la base aerea di Hmeimin, nella provincia di Latakia, per 49 anni, con la possibilità di estensione per altri 25 anni. Missione conclusa. Dopo aver vinto la guerra, ora è tempo di edificare la “pax russa”. Non da solo, ma con il benevolo coinvolgimento di altri leader regionali. Dell’Iran, si è detto. Così come della Turchia. Ora, Putin guarda al Paese delle Piramidi e al suo presidente, l’ambizioso al-Sisi . Geopolitica e affari: anche sul fronte egiziano. Una miscela che paga. Dal vertice Putin-al-Sisi emerge l’intesa sull’inizio della costruzione della centrale nucleare di El Dabaah, dopo che le parti avevano firmato un accordo cui l’agenzia atomica russa Rosatom si era impegnata a fornire all’Egitto un prestitoche avrebbe coperto l’80% del costo di realizzazione. Rosatom, costruirà i quattro reattori, e nell’arco di 60 anni fornirà il combustibile nucleare per poi decommissionare l’impianto. Sarà Mosca, in base all’accordo, a provvedere al finanziamento del progetto con un prestito di 25 miliardi di dollari. Complessivamente, Putin ha portato al suo omologo egiziani un “dono” (in affari e finanziamenti) di 30 miliardi di dollari. E questo mentre, lo scorso agosto, gli Usa avevano bloccato l’erogazione di 95,7 milioni di dollari in aiuti all’Egitto. Tra gli altri argomenti in agenda, vi era anche la ripresa dei voli regolari tra i due Paesi, sospesi dopo l’incidente del 31 ottobre 2015, quando un aereo russo cadde sul Sinai causando la morte di 224 passeggeri. Il ministero dei Trasporti russo i ha dichiarato che i voli diretti con l’Egitto potrebbero riprendere prima dell’inizio della Coppa del mondo in Russia nell’estate 2018. L’Egitto giocherà contro la nazionale russa nella fase a gironi. Il portavoce della presidenza egiziana, Bassam Radi, prima dell’incontro tra il leader del Cremlino e al-Sisi, aveva dichiarato che la visita di Putin si inscrive nel quadro di un “rafforzamento delle relazioni storiche e strategiche” tra i due Paesi e mira a “dare una spinta alla cooperazione bilaterale in tutti i settori, soprattutto a livello politico, commerciale, economico ed energetico”. Il tour prosegue ad Ankara. Tra Putin ed Erdogan è un reciproco scambio di complimenti e di rassicurazioni reciproche. A differenza degli Usa, la Russia non ha alimentato le spinte indipendentiste curde – il Grande Kurdistan è l’incubo di Erdogan – e in Siria non ha armato, come hanno fatto Cia e Pentagono, i miliziani curdi-siriani dell’Ypg. Con l’aggiunta di altri trattati commerciali bilaterali, e un cauto sostegno alle rimostranze di Ankara su Gerusalemme, tutto ciò basta e avanza per cementare l’alleanza russo-ottomana. Il protagonismo russo nel Mediterraneo interroga l’Europa. Dalla diplomazia dei gasdotti a quella delle armi, una cosa è certa: Mosca vuol essere sempre più una potenza “mediterranea”.
Questo, cinque anni fa. Oggi, quella penetrazione continua. Con le armi. E col grano.