Perché in Italia la giustizia è un’opera incompiuta
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Perché in Italia la giustizia è un’opera incompiuta

La giustizia in Italia è un'opera incompiuta, caratterizzata da una profonda ambivalenza. Da un lato, il Paese ha una lunga tradizione di lotta per la legalità, dall'altro, la corruzione e la criminalità organizzata sono ancora endemiche.

Perché in Italia la giustizia è un’opera incompiuta
Commissione giustizia della Camera
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Rocco D'Ambrosio Modifica articolo

7 Settembre 2023 - 20.01


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Il dibattito sulla riforma della giustizia, che accompagna l’attuale fase governativa, presenta, in molti elementi un senso di opera incompiuta, relativa al cammino di legalità e giustizia in Italia. Dal febbraio 1992 la comunità nazionale ha affrontato il problema tangentopoli; la comunità cristiana, nell’ottobre 91, aveva già proposto un’alta riflessione sull’educazione alla legalità. Più di dieci anni dopo il bilancio è così scarno da dire che l’opera è incompiuta. La legalità non domina il campo, anzi. Nei piccoli come nei grandi ambiti esistono prassi di illegalità dure a morire, che coinvolgono politica, lavoro e imprese, banche e finanze, sindacati e associazionismo, scuola e università, sport e cultura, volontariato e comunità religiose.

L’opera è incompiuta per tanti motivi. Tra i maggiori ne spiccano due: l’impegno educativo e l’esemplarità della classe dirigente. Le agenzie educative (famiglia, scuola, università, comunità religiose, ecc.) non sempre hanno profuso ingegno e impegno nel sanare il deficit di legalità. La classe dirigente, di tutte le istituzioni, ha perso in qualità professionale ed etica tanto da essere, a volte, meno esemplare di quella scardinata da tangentopoli. Abusi di potere, mafie, furti, raccomandazioni, concorsi truccati, corruzione e concussione, qualità scadente del vivere civile continuano e forse sono anche aumentati. Fino alla vergogna delle leggi ad personam e dello stravolgimento della Carta Costituzionale, come delle dichiarazioni pubbliche in netto contrasto con lo spirito e la lettera della Carta.

Ma, per molti dei nostri lettori, questo è sentire comune e sofferto. L’impegno più difficile è, da una parte, continuare ad essere giusti, nonostante il contesto corrotto e, dall’altra, creare consenso, specie tra i giovani, sui temi della giustizia. Il pericolo in corso è molto grande. Infatti una domanda si sente aggirare nella nostra Italia: il nostro Paese sta vivendo una riedizione del fascismo? Quella attuale è una forma di dittatura? Sull’argomento è bene intendersi. Il termine dittatura richiama esperienze tragiche soprattutto del Novecento, per noi italiani quella del fascismo. Il caso attuale, per quanto presenta delle affinità con il ventennio mussoliniano, non si identifica pienamente con esso, ma si caratterizza, invece, come una dittatura morbida o l’avvento di un mostro mite (Tocqueville 1835; Simone 2008), nel nostro caso in versione neofascista. Essa va intesa come il tentativo di conservare un’apparente e formale democrazia, ma di introdurre pesantemente una sostanziale dittatura, specie in termini di libertà di espressione, di controllo dei mass media, di gestione delle risorse pubbliche, di amministrazione della giustizia, di libertà dei sistemi di controllo, di ruolo indipendente e sovrano del parlamento. Essa, con la complicità dei corrotti, riesce a perpetrare quello che Aldo Moro chiamava l’allettamento dell’assolutismo, cioè il fascino ambiguo e pericoloso di un potere, che promette di salvare e chiede di abbandonare nelle mani di pochi la cura del bene comune.

Nell’agosto del 1944, il giovane Aldo Moro scriveva: «Costruttori di giustizia non sono per noi soltanto politici e sindacalisti: questi in un certo senso lo sono di meno. La giustizia si edifica come un fermento nel profondo e forse nell’oscuro dei cuori ». Il fermento nel profondo è un meraviglioso richiamo a quella linea di pensiero che da Socrate al giudaismo e al cristianesimo attesta che la fonte di ogni virtù è l’interiorità. Ciò significa che l’essere giusto (e il relativo rispetto della legalità) è sempre, comunque e prima di tutto, una partita interiore.

Lo sanno coloro che, in tanti modi, sono stati esempi di giustizia e rispetto delle regole. Con i martiri cristiani è doveroso ricordare anche tutti gli uomini e le donne, di ogni credo e non, che in tutte le istituzioni, hanno pagato in tanti modi la loro fame e sete di giustizia. Con Moro ci piace ricordare, tra i tanti, Enrico Berlinguer. Vivevano, forse, in tempi migliori dei nostri? Molto probabilmente no. Erano testimoni di legalità perché l’ambiente li aiutava ad esserlo? Certamente no. Allora in cosa consisteva (e consiste) la loro forza? In una scommessa interiore. In un giocarsi, senza riserva, per una causa, che prima di essere sociale, compromette la mia identità, sin nel e dal profondo. Per questa via è possibile diventare e conservarsi giusti, comprendendo quella che la Scrittura chiama la “beatitudine” del giusto. Per questa via si rafforzano gli itinerari educativi: solo evidenziando il dato interiore l’educare piccoli e giovani alla giustizia non scade nella retorica e nell’ipocrisia; solo così le coscienze formate daranno forza e vitalità a tutte le nostre istituzioni. E’ un fare giustizia – ancora Aldo Moro – che “include il pensare e l’amare, perché la più grande opera sociale è quella che ha la sua radice nell’intimità dello spirito”.

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