Un allarmante 56% dei giovani italiani nella fascia d’età compresa tra i 10 e i 25 anni ricorre abitualmente alla pirateria per accedere a contenuti audiovisivi. Questa cifra, emersa da un’indagine congiunta Fapav e Ipsos Doxa, solleva una questione cruciale: la pirateria non è solo un problema tecnico o legale, ma un fenomeno culturale radicato, specialmente tra le nuove generazioni.
L’analisi rivela che il comportamento illecito è motivato da dinamiche generazionali distinte. Mentre i ragazzi più grandi, i 15-25enni, sono talvolta spinti dal desiderio di contestare un “sistema” che percepiscono come distante dalla loro visione, i più giovani, i preadolescenti, agiscono principalmente per emulazione, mancando di convinzioni rigide sul tema. In entrambi i casi, prevale una scarsa consapevolezza: la maggioranza non ha ancora maturato la percezione che l’accesso illegale a contenuti protetti costituisca un vero e proprio reato con conseguenze legali e rischi individuali.
Curiosamente, la percezione dei rischi personali legati alla pirateria non si traduce in maggiore prudenza. Nonostante un’ampia fetta di ragazzi riconosca la probabilità di incappare in virus e malware (40-44%) e i giovanissimi temano le truffe e il furto di dati (35%), la maggioranza continua a praticare atti illeciti. Il dato più significativo riguarda i pirati seriali: il 62% dei 15-25enni che accedono a contenuti illegali ha dichiarato di aver subito attacchi informatici, ma anziché abbandonare la pratica, sembra aver sviluppato meccanismi di minimizzazione del problema. L’uso di dispositivi dedicati per la pirateria, ad esempio, funge da strategia di mitigazione che riduce la percezione del pericolo.
Il fenomeno è normalizzato e de-responsabilizzato dalla sensazione che si tratti di un comportamento diffuso e privo di “vittime visibili”, alimentando una preoccupante indifferenza verso i danni economici e sociali inflitti all’industria creativa, il cui prodotto audiovisivo, come ricorda il presidente di Anica, Alessandro Usai, è il più costoso da realizzare e dipende da una tutela a lungo termine. Solo un terzo dei giovani intervistati dichiara di aver ricevuto informazioni specifiche sui rischi della pirateria (principalmente a scuola o in famiglia). Tuttavia, il rapporto sottolinea un paradosso: i pirati si ritengono più informati sui rischi rispetto ai non pirati. Questo suggerisce che la semplice diffusione di informazioni generiche non è sufficiente a modificare comportamenti radicati.
È necessario un cambio di passo strategico. Se da un lato la nuova normativa italiana, con procedure all’avanguardia come il blocco dei contenuti illeciti in 30 minuti da parte di Agcom, rappresenta una “frontiera efficace di contrasto” (Federico Bagnoli Rossi, Fapav), dall’altro gli esperti concordano che la repressione non basta. Come riportato anche dalla giornalista Chiara Venuto su ansa.it, la vicepresidente esecutiva della Motion Picture Association, Larissa Knapp, ha evidenziato come le “attività educational” siano lo strumento più potente a lungo termine per forgiare abitudini digitali responsabili. La vera sfida è promuovere una “narrazione collettiva-massmediatica” che inquadri gli atti di pirateria all’interno di una più ampia cornice culturale di educazione alla legalità, con scuola e famiglia chiamate a ricoprire un ruolo cruciale.