di Rinaldo Vignati
In relazione al referendum costituzionale del 4 dicembre erano essenzialmente tre gli interrogativi che ci si poteva porre in relazione alle scelte degli elettori.
In primo luogo, ci si domandava quanto la scelta di una parte dei dirigenti Pd (in primis l’ex segretario Pierluigi Bersani) di schierarsi a favore del “No” avrebbe pesato sulla compattezza del voto degli elettori di questo partito.
Una seconda domanda riguardava l’ambizione più volte dichiarata durante la campagna elettorale dal presidente del consiglio Matteo Renzi di riuscire a convincere una parte dell’elettorato di centrodestra: in che misura questa ambizione sarebbe riuscita effettivamente a fare breccia tra questi elettori?
Un terzo interrogativo riguardava il Movimento 5 stelle. Quanto le scelte degli elettori di una formazione ancora “nuova” come questa (la sua prima partecipazione alle elezioni politiche è del 2013) sarebbero state compatte nel voto referendario?
Ebbene, se volessimo riassumere nel modo più sintetico possibile – con un tweet, potremmo dire – le risposte a questi tre interrogativi diremmo che gli elettorati dei partiti “storici” si frammentano mentre quello del (non)partito nuovo rivela una compattezza granitica.
Per arrivare a queste conclusioni abbiamo svolto su 11 città delle stime dei flussi elettorali attraverso il cosiddetto “modello di Goodman”. Si tratta di stime statistiche (e quindi di misure affette da un certo margine di incertezza) elaborate a partire dai dati delle singole sezioni elettorali di ciascun comune considerato. Le analisi sono effettuate «su elettori» e non «su voti validi», al fine di poter includere nel computo anche gli interscambi con l’area del «non-voto» (astenuti, voti non validi, schede bianche).
Abbiamo calcolato tali flussi a partire dalle elezioni politiche del 2013, punto temporale che costituisce una sorta di benchmark perché è da lì che si è affermato il formato essenzialmente tripolare della competizione.
Presenteremo i risultati sotto forma di flussi in uscita dalle principali forze politiche che si presentarono nel 2013. Porremo gli elettori di ognuna di queste forze politiche pari a 100 e vedremo come si sono distribuiti tra il Sì, il No e il non-voto (che comprende astenuti e schede bianche e nulle).
Cominciamo dal Pd (figura 1).
L’elettorato di questo partito ha partecipato quasi interamente al voto (pochissimi – a parte il caso di Reggio Calabria – sono gli elettori del Pd che si sono astenuti). Il “No” ha invece avuto un’incidenza talvolta marcata. Nelle città del Nord e del Centro inserite nella nostra analisi il peso della diaspora verso il No varia da un minimo di un quinto (20,3% a Firenze) a un massimo di un terzo (33% a Torino). Al Sud questo peso è in alcuni casi anche maggiore: a Napoli e a Palermo più del 40% degli elettori Pd ha respinto la riforma.
Già al referendum sulle trivelle di aprile, il Pd – ufficialmente schierato per l’astensione ma con voci dissenzienti a favore del sì – aveva perso la sua compattezza.
Il voto sul referendum costituzionale – pur maggiormente “politicizzato” rispetto a quello delle trivelle – conferma la presenza all’interno di questa forza di una componente minoritaria ma significativa di elettori dissenzienti rispetto alla linea ufficiale della segreteria.
Figura 1. Come hanno votato 100 elettori che alle politiche del 2013 avevano votato Pd
Vediamo ora il “Centro” (figura 2), ossia gli elettori che nel 2013 avevano votato per la coalizione Monti (Scelta civica, Udc, Fli). Com’è noto, Mario Monti si è espresso in campagna elettorale a favore del No. Altri dirigenti di questa coalizione (come Pierferdinando Casini) si sono invece espressi per il Sì. L’elettorato di questi tre partiti alle elezioni europee del 2014 si era interamente riversato sul Pd. Si può dire che la scelta referendaria di questi elettori sia in continuità con quella compiuta alle europee: quasi unanimemente, infatti, i centristi scelgono il Sì (parziali eccezioni sono alcune città del Sud come Paleremo, Cagliari e Reggio Calabria).
Figura 2. Come hanno votato 100 elettori che alle politiche del 2013 avevano votato per i partiti della coalizione Monti
Passando alla principale forza del centrodestra (ossia gli elettori che nel 2013 votarono per il Pdl – vedi figura 3) si può osservare in primo luogo che il partito di Berlusconi perde una quota abbastanza significativa verso l’astensione: questa non è una novità (già nei precedenti referendum costituzionali le perdita verso l’astensione delle forze politiche guidate da Berlusconi erano state rilevanti). In secondo luogo, si può osservare che la riforma è riuscita a fare breccia nell’elettorato berlusconiano. È una breccia in genere piccola (a Parma, Napoli e Palermo i Pdl pro-riforma sono meno del 20%) ma comunque significativa. E che, in alcune città, arriva anche a proporzioni consistenti: a Brescia i berlusconiani favorevoli alla riforma sono il 36,8% e a Bologna superano il 41%, a Firenze arriva al 44%.
Figura 3. Come hanno votato 100 elettori che alle politiche del 2013 avevano votato Pdl
Arrivando infine al Movimento 5 stelle, se il referendum sulle trivelle di aprile aveva mostrato segni di un consolidamento di questo elettorato, il referendum costituzionale rivela una compattezza granitica. Le perdite verso l’astensione sono (a parte poche città, come Cagliari, Torino, Bologna e Parma) trascurabili. Ancor di più lo sono i flussi verso il Sì. Quasi unanimemente gli elettori che nel 2013 avevano scelto il partito di Grillo oggi hanno scelto di opporsi alla riforma costituzionale (in sei città su dieci le percentuali sono superiori al 90%).
È molto interessante notare che una delle città in cui i pentastellati (pur rimanendo maggioritariamente contrari alla riforma) si discostano maggiormente da questo patternè Parma (la città del “caso Pizzarotti”): qui il 67,7% di loro ha votato No, mentre il 17,4% si è astenuto e il 14,9% ha votato Sì.
Figura 4. Come hanno votato 100 elettori che alle politiche del 2013 avevano votato M5s
(con la collaborazione di Michelangelo Gentilini, Mario Marino, Roberta A. Maida)