Cernobyl, il giorno in cui si spense l’incubo atomico
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Cernobyl, il giorno in cui si spense l’incubo atomico

Il 15 dicembre del 2000 si spegneva l'ultimo reattore in funzione della centrale nucleare ucraina, lasciando però un'eredità indelebile.

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14 Dicembre 2025 - 22.16 Culture


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Con la semplice pressione di un interruttore, il 15 dicembre 2000 segnò la fine operativa della centrale nucleare di Chernobyl: venne spento definitivamente il reattore numero 3, l’ultimo ancora in funzione dopo la catastrofe del 1986. Come ricorda Marco Patricelli su AGI Cultura, quel gesto simbolico chiudeva un capitolo iniziato negli anni Settanta, ma irrimediabilmente segnato dall’esplosione del reattore numero 4 nella notte del 26 aprile 1986, uno dei momenti più drammatici del XX secolo. La storia di Chernobyl, tuttavia, non appartiene solo al passato: continua a parlare al presente.

Nelle ore successive all’esplosione, l’Unione Sovietica affrontò l’emergenza nel modo più disfunzionale possibile: negando l’evidenza, tacendo, ritardando ogni comunicazione e sacrificando vite umane in nome dell’apparenza. I vigili del fuoco accorsero sul posto come in un intervento ordinario, senza protezioni adeguate, ignari del fatto che il nucleo fosse già disintegrato e che stavano respirando radiazioni letali. Gli elicotteri inviati a gettare sabbia e boro sul reattore operarono dentro la nube radioattiva, condannando i piloti a un destino già scritto. La popolazione fu evacuata in ritardo, con oltre 330.000 persone costrette a lasciare le proprie case, mentre l’Occidente veniva a conoscenza dell’incidente solo perché una centrale svedese aveva registrato un improvviso aumento della radioattività. Prypjat, la città costruita per i lavoratori della centrale, fu svuotata in poche ore il giorno successivo: più di mille autobus portarono via famiglie convinte che sarebbero tornate dopo pochi giorni, ma nessuno avrebbe mai più abitato quelle strade. Anche gli operai impegnati nella costruzione dei reattori 5 e 6, non informati, si presentarono regolarmente al lavoro, subendo anch’essi la contaminazione.

Mentre la nube radioattiva si diffondeva sopra l’Europa, migliaia di persone furono chiamate a intervenire nelle operazioni di soccorso e contenimento. Si stima che furono almeno quattrocentomila, forse molti di più, i cosiddetti “liquidatori” incaricati di recuperare ciò che restava della centrale e decontaminare l’area circostante. Nel giro di due settimane, molti di loro iniziarono a morire uno dopo l’altro, colpiti dalle radiazioni assorbite mentre rimuovevano tonnellate di macerie contaminate. Le cifre ufficiali parlano di 65 morti immediate e circa quattromila decessi successivi dovuti a tumori e leucemie, ma le stime reali sono probabilmente molto elevate: si calcola che fino a cinque milioni di persone possano aver subito conseguenze, difficili da accertare con precisione nel tempo. Il dramma ebbe risvolti anche fuori dai confini dell’Ucraina: nel 1987, sull’onda emotiva del disastro, l’Italia decise con un referendum di rinunciare al nucleare civile.

Nei mesi successivi venne costruito il primo sarcofago in cemento e acciaio per coprire il reattore distrutto, una soluzione urgente ma provvisoria, che negli anni mostrò infiltrazioni e cedimenti. Solo nel 2016 fu realizzato un nuovo involucro, il New Safe Confinement, pensato per garantire maggiore stabilità. Intanto, uno dopo l’altro, i reattori superstiti vennero chiusi: il numero 2 nel 1991, il numero 1 nel 1996 e infine, nel 2000, il numero 3.

Chernobyl, però, non è rimasta un capitolo chiuso. Le recenti ispezioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica hanno infatti rivelato che il nuovo scudo protettivo, installato nel 2019, ha subito danni significativi a causa di un attacco con droni avvenuto nel febbraio 2025. La struttura ha riportato lesioni al rivestimento e ai materiali isolanti, riducendo la sua capacità di garantire un isolamento totale. Sebbene i sistemi di monitoraggio non rilevino fughe radioattive oltre i livelli attesi, l’AIEA ha definito urgente una ristrutturazione completa della cupola, pena un progressivo deterioramento.

Oggi Chernobyl è molto più di un luogo: è un simbolo. Negli anni è diventato un laboratorio culturale, un tema ricorrente nella letteratura, nel cinema e nel dibattito pubblico, capace di evocare i limiti della tecnologia e la vulnerabilità delle società moderne. La sua storia è un monito che invita a riflettere sulla necessità di una gestione trasparente dell’informazione, di un controllo rigoroso dei rischi e di una responsabilità condivisa quando si parla di energia e progresso.

E così Chernobyl continua a ricordarci, ancora oggi, che le ombre del passato non svaniscono: restano lì, a vigilare sul nostro futuro e a sottolineare l’importanza di non dimenticare.

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