Sud Sudan, guerra per procura

Il presidente Salva Kiir e il ribelle Riek Machar combattono anche per la disputa tra Khartoum e Kampala. Usa e Cina guardano con interesse.

Sud Sudan, guerra per procura
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10 Marzo 2014 - 16.20


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di Davide Maggiore

“L’Uganda che combatte contro il Sudan all’interno del Sud Sudan, e l’Etiopia che si scontra con l’Eritrea in Sud Sudan, e una mancanza completa di legge e ordine”. È questo, secondo fonti diplomatiche citate dall’agenzia AFP, lo scenario peggiore che la comunità internazionale si sta preparando ad affrontare in Africa dell’Est: lo scontro tra il governo sud-sudanese guidato da Salva Kiir e i ribelli fedeli a Riek Machar, infatti, sta assumendo, in maniera sempre più evidente anche una dimensione internazionale.

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Il sostegno dato alle truppe regolari dall’esercito ugandese, in effetti, è noto da tempo; nuova è invece la preoccupazione che questa mossa rifletta un peggioramento dei rapporti tra Kampala e il governo nord-sudanese di Khartoum. Alcuni analisti hanno ricordato come la rivalità tra i due Paesi abbia radici nel sostegno dato dall’Uganda all’opposizione armata durante la seconda guerra civile del Sudan. Ma non mancano motivi di scontro ben più prossimi e concreti: il petrolio, innanzitutto, che per Khartoum è allo stesso tempo il miglior salvagente per un’economia in grave difficoltà e un’arma politica da usare contro il Sud Sudan indipendente, visto che l’unico oleodotto attualmente esistente passa per il territorio nord-sudanese. In questo senso l’Uganda (così come il Kenya) rischia di giocare il ruolo del ‘guastafeste’, visto che è interessata al progetto di una seconda pipeline che dovrebbe raggiungere l’Oceano Indiano in corrispondenza della località kenyana di Lamu, o attraverso Gibuti. E Kampala, in cambio dell’aiuto fornito a Juba, potrebbe anche richiedere una partecipazione diretta agli utili dello sfruttamento petrolifero, cosa che, ancora una volta, si ripercuoterebbe direttamente sui margini di guadagno di Khartoum.

Da non trascurare è anche la posizione dei due capi di Stato che starebbero indirettamente combattendosi in Sud Sudan: il nord-sudanese Omar al-Bashir vede la stabilità economica anche come un puntello per il suo potere personale, negli ultimi anni obiettivo anche di proteste di piazza; senza contare la quantità di risorse assorbita dall’altra crisi irrisolta in cui è coinvolto, quella del Darfur. L’ugandese Yoweri Museveni, invece, cerca attraverso la strategia interventista in politica estera di ‘mostrare i muscoli’ anche sul fronte interno: qui molti elementi del suo stesso partito vorrebbero cercare di indebolire il leader – in carica dal 1986 e appena ricandidato alla successione di sé stesso – per poterne prendere il posto.

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A preoccuparsi per il ruolo dell’Uganda, e a chiedere un ritiro delle truppe – già promesso da Kampala ma non ancora effettuato – è stata anche l’Etiopia. Pubblicamente impegnato nei finora fallimentari colloqui di pace tra Kiir e Machar, il governo di Hailemariam Desalegn ha a sua volta interessi nella partita geopolitica regionale: il Sud Sudan può essere infatti un alleato importante sia per quanto riguarda la questione ormai storica della ripartizione delle acque del Nilo, sia dal punto di vista della sicurezza. La presenza di qualcuno che tenga impegnata Khartoum sul suo confine meridionale, in effetti, si tradurrebbe in una diminuzione dell’aiuto che – secondo l’Etiopia – dalla capitale nord-sudanese arriva all’Eritrea, storica rivale di Addis Abeba, e da qui ai ribelli sud-sudanesi; questi rappresentano un altro possibile rischio per la stabilità etiope. Ma un timore simile muove Kampala, resa inquieta da una possibile alleanza di Machar con quel che resta del Lord Resistance Army; il suo capo, il signore della guerra ugandese Joseph Kony, potrebbe tornare a minacciare – se un simile patto fosse concluso – il governo del suo Paese d’origine.

Quella in corso in Sud Sudan, insomma, rischierebbe di diventare – se non lo è già – una guerra per procura, che a sua volta si inserisce in un conflitto ben più grande, anche se non combattuto con le armi. In gioco c’è il controllo delle risorse africane, che ha nel Sud Sudan uno dei suoi snodi più importanti. E che vede i grandi attori tradizionali della politica mondiale (in questo caso soprattutto gli Stati Uniti) sempre più insidiati, o addirittura superati, dalle potenze economiche emergenti, Cina in testa. Forse non a caso Kampala è uno degli alleati più fedeli degli Stati Uniti nell’area (e dovrebbe rimanere tale nonostante alcuni recenti malumori di Washington sulla nota ‘legge anti-gay’), mentre Khartoum, isolata dall’Occidente anche per la vicenda giudiziaria che coinvolge il presidente Bashir e la Corte penale Internazionale, è un interlocutore ideale per le autorità cinesi.

Washington, certo, è tra i Paesi che hanno espresso preoccupazione per la presenza delle truppe ugandesi in Sud Sudan, e Pechino ha interessi petroliferi che la legano alle autorità in carica; ma non è detto che entrambe le cose non possano aggiustarsi. Kampala, ad esempio, ha proposto che i suoi soldati rimangano sul terreno come parte di una futura forza di peacekeeping, e la Cina, dal canto suo, non ha mai avuto problemi ad allacciare rapporti con leader osteggiati dal resto dei partner internazionali, sempre ammesso che Machar abbia davvero possibilità concrete di prendere il potere. Ma anche nel caso di un mantenimento dello status quo, o di un conflitto prolungato, ognuna delle due superpotenze, tramite gli alleati locali, avrebbe ottenuto un risultato: dimostrare che, senza un suo coinvolgimento, la questione sud-sudanese è destinata a rimanere per un tempo indefinito il labirinto quasi inestricabile che è oggi.

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