di Paola Rea
L’ha annunciato, e l’ha fatto. La settimana scorsa, su Fox News, il presidente Donald Trump, commentando l’imminente incarcerazione di Joe Arpaio, tra lo sbigottimento generale, ha annunciato di volerlo graziare.
“Potrei farlo subito, magari sul presto questa settimana. Ci sto seriamente pensando”. Dopotutto, parole sue, Arpaio è stato “un grande patriota americano”, che “ha fatto molto per combattere l’immigrazione illegale”.
Ed ecco che oggi arriva la notizia: lo sceriffo ‘più duro d’America’ – epiteto che lo stesso Arpaio si è attribuito- è stato perdonato da Trump: non sconterà i sei mesi di carcere che gli sarebbero probabilmente spettati se fosse arrivato alla sentenza prevista per il 5 di ottobre.
Peccato che lo sceriffo dell’Arizona fosse sotto accusa per aver violato un esplicito ordine giuntogli da un giudice federale, che l’aveva diffidato anni fa dal perseverare in maltrattamenti e pratiche discriminatorie nei confronti degli ispanici.
Nel 2011, infatti, il giudice Murray Snow della District Court aveva messo su una ingiunzione temporanea contro Arpaio, ordinandogli di non mantenere più in stato detentivo nessuno che fosse stato trovato colpevole del solo essere immigrato illegalmente in America: in altre parole, lo stato di migrante non poteva essere considerato più un reato dallo sceriffo dell’Arizona.
Quest’ordine venne poi confermato e reso permanente nel 2013, quando l’ufficio di Arpaio fu trovato colpevole di aver ricercato e perseguito immigrati privi di documenti: il caso portò ad una indagine federale che rivelò, da parte della squadra dello sceriffo, molteplici maltrattamenti ai danni dei detenuti ispanici, comprese dure punizioni per quando venivano colti a parlare tra di loro in spagnolo.
Joe Arpaio, Trumpiano dichiarato della prima ora, presente ai comizi pre- elezione del Tycoon già dal 2016, ha ringraziato oggi sentitamente il Presidente, per aver svelato cos’era realmente il processo che lo riguardava: “una caccia alle streghe politiche da parte dei detentori del dipartimento di giustizia di Obama”.
Ora, su Twitter, si mostra commosso: “Sono onorato e incredibilmente grato al Presidente Trump. Ho messo dietro di me questo capitolo”.
La decisione di Trump è apparsa da subito controversa: non nel senso che non se ne comprenda il significato politico, che anzi, è purtroppo molto chiaro, ma nel senso che l’opinione pubblica americana è da sempre fortemente divisa sul giudizio riguardo l’agire dello sceriffo. Arpaio, 85 anni ora, ha fatto molto parlare di sé negli anni, ma non è tristemente famoso per i soli suoi commenti razzisti: bensì, ha associato il suo nome ad una delle creazioni più illiberali del secolo scorso, che ha sfortunatamente avuto vita per ben 24 anni e che sembra giungere solo ora ad un meritato termine. Stiamo parlando del Tent Camp, il campo di prigionia per Latini che lo sceriffo ha eretto nel 1993 nel deserto dell’Arizona. In un excursus climatico che va dai 54 gradi centigradi ai 5, centinaia di detenuti sono stati alloggiati in tende da campo, in gran parte ricavate dai rimasugli della guerra di Corea: si riporta spesso di lavori forzati da compiersi tutto il giorno sotto il sole, e di nessuna forma di protezione dal freddo durante la notte.
L’ex detenuto Jaime Valdez, di 35 anni, che ha scontato sei mesi al campo degli ‘immigrati illegali’ nel 2012, ha per esempio raccontato che durante il periodo delle piogge notturne non era stato fatto nulla per chiudere le tende e riparare i letti dall’acqua e dal freddo, cosicché i detenuti hanno dovuto fabbricare delle corde, per tenere fermi i tendoni, con le buste di plastica della spazzatura, precedentemente date loro a mo’ di impermeabile.
E le storie di questo tipo sono tante: lo sceriffo ha vantato più volte di spendere ‘un solo dollaro a testa al giorno per nutrire i detenuti’ e di far indossare ai carcerati ‘mutande rosa perché so che le detestano ma non possono farci nulla. Questo mi piace”.
Ancora più grave il fatto che i prigionieri, di ambo i sessi, fossero costretti ad indossare catene di ferro ai piedi, una misura non più accettata in America dal 1955.
Attualmente vi sono ancora 370 tra uomini e donne nel Tent Camp, ma finalmente sembra che da ottobre verranno ricollocati e quello che è stato definito ‘scherzosamente’ dallo stesso Arpaio ‘un campo di concentramento’ cesserà di esistere. Ma la vera domanda resta un’altra: il campo di Arizona è nato nel 1993 come soluzione ‘provvisoria’; come è stato possibile che sia rimasto in piedi fino ad oggi?
Forse la terribile risposta l’ha data Kathryn Kobor, ‘turista’ del Tent Camp nel 2015 che, assimilando immigrazione a colpa, ha rilasciato all’epoca questo commento: “ non era orrifico come pensavo. E poi, se hai commesso un crimine, la devi pagare”. Si può forse supporre che la donna sia un’ elettrice di Trump: ma questo vuol dire che fa parte di una maggioranza Americana di cui spesso si vuol dimenticare l’esistenza.
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