Sud Sudan: dieci anni dopo, l'indipendenza non cancella la sofferenza
Top

Sud Sudan: dieci anni dopo, l'indipendenza non cancella la sofferenza

Dieci anni fa nasceva lo Stato del Sud Sudan. Dieci anni dopo la situazione è documentata dall’Unicef, l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Infanzia.

Rifugiati del sud Sudan
Rifugiati del sud Sudan
Preroll

Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

6 Luglio 2021 - 16.40


ATF

La speranza si è trasformata in un incubo. L’affrancamento da una dittatura sanguinaria si sta risolvendo in un’apocalisse umanitaria. Dieci anni fa nasceva lo Stato del Sud Sudan. Dieci anni dopo la situazione è documentata dall’Unicef, l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Infanzia.

Allarme rosso

In occasione del 10° anniversario dell’indipendenza del Sud Sudan (9 luglio 2021), l’Unicef ricorda che un numero record di 4,5 milioni di bambini – 2 su 3 – nel paese hanno un disperato bisogno di aiuto umanitario. 

In un rapporto sull’impatto della crisi umanitaria sui bambini, l’Unicef ricorda che le speranze secondo cui l’indipendenza avrebbe portato a una nuova alba per i bambini del paese sono svanite. Episodi di violenza e conflitto, inondazioni ricorrenti, siccità, altri eventi meteorologici estremi alimentati dal cambiamento climatico e una crisi economica sempre più profonda, hanno portato a un’insicurezza alimentare estremamente elevata e a una delle peggiori crisi umanitarie del mondo. Il recente accordo di pace, che è stato attuato solo in parte, non è riuscito finora a portare alcun miglioramento alle sfide che i bambini e i giovani del paese devono affrontare. 

“La speranza e l’ottimismo che i bambini e le famiglie del Sud Sudan hanno provato alla nascita del loro paese nel 2011 si sono lentamente trasformati in disperazione e sconforto”, ha dichiarato il direttore generale dell’Unicef Henrietta Fore. “L’infanzia di molti bambini di 10 anni in Sud Sudan oggi è stata assediata da violenze, crisi e abusi dei diritti”.  

Circa 8,3 milioni di persone in Sud Sudan hanno bisogno di assistenza umanitaria, un numero molto più alto rispetto ai livelli visti durante la guerra civile del 2013-2018, che andavano da 6,1 a 7,5 milioni di persone. 

Il tasso di mortalità dei bambini è tra i più alti al mondo, ed è stato stimato che 1 bambino su 10 non raggiungerà il suo quinto compleanno. 

Gli alti livelli di insicurezza alimentare sono particolarmente preoccupanti. Si prevede che circa 1,4 milioni di bambini soffriranno di malnutrizione acuta quest’anno, la cifra più alta dal 2013. Più di 300.000 bambini – il numero più alto mai registrato nel paese – soffriranno della peggiore forma di malnutrizione e rischieranno di morire se non verranno garantite cure. 

A causa dell’accesso limitato all’istruzione e degli alti tassi di abbandono scolastico, 2,8 milioni di bambini non vanno a scuola – la più alta percentuale di bambini che non vanno a scuola nel mondo, di oltre il 70% dei bambini in età scolare. La chiusura delle scuole per 14 mesi a causa della pandemia da Covid ha spinto altri 2 milioni di bambini fuori dalla scuola. 

Nonostante le continue insicurezze, l’Unicef sta lavorando con i partner per aumentare la capacità di monitoraggio e cura dei bambini contro la malnutrizione acuta, con una casistica prevista di 1,4 milioni di bambini nel 2021. Il miglioramento dell’accesso all’acqua potabile, dei servizi igienico-sanitari e dell’accesso all’assistenza sanitaria di base sono anche tra le principali priorità dell’Unicef, insieme all’accesso all’istruzione. 

Tuttavia, i fondi rimangono limitati. L’Unicef ha lanciato un appello di 180 milioni di dollari per assistere i bambini più vulnerabili quest’anno. A metà anno, questo appello è finanziato solo per un terzo, e il più ampio piano di risposta umanitaria rimane analogamente sottofinanziato. I donatori hanno già apportato tagli ai loro budget per il Sud Sudan – o hanno annunciato che le riduzioni sono dietro l’angolo. La crisi peggiorerà con l’arrivo della stagione di magra e l’aumento del rischio di inondazioni. Senza un’azione urgente si perderanno delle vite.  

La disponibilità e l’accesso al cibo rimangono una sfida per la maggior parte della popolazione a causa del conflitto prolungato nel Paese – cominciato nel dicembre 2013 per la guida politica dello Stato, all’indomani della sua indipendenza dal Sudan, avvenuta in seguito ad un referendum nel 2011 – dell’interruzione delle catene del valore agricolo e dello sfollamento di persone. La pandemia rappresenta quindi una seria minaccia per una situazione già fragile, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza alimentare e nutrizionale.

“Fino a oggi ci sono giovani armati fino ai denti per proteggere il proprio bestiame, la propria terra, il proprio clan e contribuiscono ad aumentare la spirale di violenza disumanizzando sé stessi e il Paese. In questi giorni, nel territorio di una parrocchia della diocesi di Rumbek, ci sono stati più di 70 morti in scontri fra milizie formate da giovani”. A raccontarlo, in una recente intervista a La Stampa è monsignor Christian Carlassare, vescovo eletto di Rumbek 

 Scenario inquietante

Di grande interesse è il report di Sara de Simone per l’Ispi: “La grande diffusione di armi presso la popolazione civile rende ancora estremamente facili escalation di conflitti locali legati all’accesso alle risorse. Secondo la Ong sud sudanese Community Empowerment Progress Organization (Cepo), tra gennaio e maggio 2021 oltre 3000 persone sarebbero state uccise o ferite in scontri intercomunitari causati da dispute sulle risorse locali (soprattutto accesso all’acqua, alla terra, alle posizioni di potere che garantiscono un minimo accesso agli scarsi servizi di base), dalla frustrazione per la mancata implementazione dell’accordo di pace e dalla manipolazione politica delle situazioni di  malcontento localizzate. La mancata demarcazione dei confini interni relativi alle unità amministrative e di governo locale, insieme alle aspettative che tale demarcazione avverrà su base etnica, rappresenta una delle questioni che più facilmente provoca tensioni e scontri tra gruppi estenuati dalla guerra ma allo stesso tempo abituati alla violenza per sopperire alla sistematica assenza di giustizia. Le esortazioni a creare una Commissione per la Verità e la Riconciliazione e ad avviare processi di pace dal basso da parte della società civile non sembrano per il momento aver avuto esiti concreti. Se l’embargo sulle armi e le sanzioni contro il paese recentemente prolungate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite fino a maggio 2022 possono essere misure utili a mettere sotto pressione la classe dirigente, dall’altro lato testimoniano un raffreddamento dei rapporti con i donatori internazionali rispetto a un passato recente caratterizzato da flussi finanziari pressoché illimitati.

Nonostante la ripresa delle estrazioni petrolifere (crollate da 350.000 a 160.000 barili al giorno durante la guerra), da cui dipende il 98% del budget statale sudanese, e il lancio della prima asta per l’acquisizione di nuovi blocchi petroliferi esplorativi, l’economia del paese resta in condizioni catastrofiche senza che alle dichiarazioni sulla lotta alla corruzione e sull’aumento della trasparenza nella gestione della spesa pubblica facciano seguito atti concreti.

La persistente insicurezza, unita alla situazione di crisi economica ulteriormente peggiorata dalla pandemia da Covid-19 (che, a causa delle restrizioni alla mobilità, ha provocato un notevole aumento dei prezzi dei generi alimentari di base importati dai paesi limitrofi), contribuisce ad alimentare una situazione di profondo malcontento da parte della popolazione locale nei confronti dei governanti. Questo malcontento è emerso in modo molto visibile dal rapporto pubblicato a dicembre 2020 dal National Dialogue Steering Committee, un comitato previsto dall’accordo di pace del 2018 e fortemente voluto dal presidente Salva Kiir allo scopo di rendere più inclusivo il processo di pace. Il rapporto ha raccolto le opinioni della cittadinanza sul processo di pace attraverso una serie di sondaggi, rivelando posizioni estremamente critiche nei confronti dell’attuale élite politica, in particolare nei confronti di Kiir e Machar: il 75% della popolazione pensa che dovrebbero dimettersi immediatamente o almeno dichiarare che non si presenteranno alle elezioni che dovrebbero svolgersi alla fine del periodo di Transizione, nel dicembre 2022. Sebbene Salva Kiir, pur riconoscendo il valore di questo esercizio di partecipazione, l’abbia liquidato come un tentativo del Comitato di andare oltre il proprio mandato, la questione ha avuto una tale risonanza da spingere l’esercito a prendere posizione con una lettera al Presidente in cui gli si suggerisce di farsi da parte e si dichiara che l’esercito rifiuterà di agire contro i manifestanti pacifici che nel corso degli ultimi mesi hanno chiesto un cambio di leadership; anzi, in caso di necessità, l’esercito interverrà per proteggerli.

La situazione del Sud Sudan resta quindi instabile e fluida – conclude l’analista dell’Ispi – anche se per il momento non sembra probabile un ritorno a una guerra su larga scala nel paese (anche per mancanza delle risorse con cui sostenerla), il coinvolgimento nel processo di pace delle forze che fino a questo momento ne erano state escluse, così come la capacità di promuovere riforme politiche ed economiche di lungo periodo saranno determinanti per evitare un nuovo conflitto alla fine del periodo di transizione, nel dicembre 2022, anche qualora alcuni degli obiettivi più ambiziosi – come l’organizzazione di elezioni libere  e credibili in assenza di dati affidabili sulla popolazione dello stato – dovessero essere posticipati”.

Sud Sudan, l’indipendenza non cancella lo sfruttamento. 

 

Native

Articoli correlati