Mentre sui tavoli della diplomazia si negozia una fragile tregua, la realtà sulle strade e negli ospedali della Striscia rimane drammatica. Secondo il ministero della Salute di Gaza, nelle ultime 24 ore almeno 17 palestinesi sono stati uccisi e 71 feriti negli attacchi israeliani; il conteggio ufficiale delle vittime dall’inizio del conflitto il 7 ottobre 2023 è salito a 67.211 morti.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito pubblicamente che il piano in corso — che prevede lo smantellamento delle capacità militari di Hamas e una riorganizzazione della sicurezza nella Striscia — dovrà essere attuato anche con la forza, se non sarà possibile in modo pacifico: “Se ciò sarà raggiunto in modo pacifico, tanto meglio. Se no, sarà raggiunto con la forza”, ha dichiarato, aggiungendo che il fallimento del piano porterebbe a un nuovo conflitto aperto.
Di fronte a queste parole, il coro di dolore e rabbia palestinese si intreccia con l’indignazione internazionale: i numeri parlano di una catastrofe umanitaria che non può essere derubricata a semplice “danno collaterale”. Ospedali al collasso, fame, acqua e medicine che scarseggiano: è questo il prezzo che la popolazione civile sta pagando mentre la retorica delle “necessarie operazioni militari” continua a legittimare bombardamenti e incursioni. Organizzazioni internazionali e numerosi governi hanno più volte sollevato dubbi sulla proportionalità e sulla compatibilità delle operazioni israeliane con il diritto internazionale.
Non è accettabile che la ricerca degli obiettivi strategici (reali o presunti) si traduca in una strategia che normalizza la morte di intere famiglie e la distruzione di infrastrutture civili. Quel che avviene a Gaza non è una fredda statistica: sono vite umane, scuole, ospedali, quartieri rasi al suolo. Quando il governo parla di “smilitarizzazione” ma contemporaneamente mantiene una presenza militare estesa e ordina attacchi che mietono vittime civili, la giustificazione della sicurezza diventa una schermatura per politiche che producono sofferenza prolungata.
La politica dell’“o tutto o niente” evocata dal governo israeliano rischia di alimentare un circolo di violenza senza uscita: più si colpisce la popolazione civile, più si indeboliscono i presupposti per una pace duratura. Le parole di leader che minacciano di tornare alla guerra se non saranno rispettate le loro condizioni non danno spazio alla mediazione, anzi la rendono subalterna alle esigenze militari. È una scelta politica chiaramente schierata: la sicurezza di uno Stato non può essere perseguita ignorando il diritto internazionale e i diritti fondamentali di milioni di persone.
Il mondo osserva — e talvolta condanna — ma le condanne restano vuote se non accompagnate da pressioni concrete per interrompere immediatamente i bombardamenti sulle aree densamente abitate, aprire corridoi umanitari, consentire l’accesso senza ostacoli agli aiuti e avviare processi di responsabilità per le possibili violazioni del diritto umanitario. Per ora, invece, la strategia che prevale sembra essere quella della forza prevaricatrice: si continua a colpire, a minacciare, a normalizzare la guerra.
Chi si dice favorevole alla pace dovrebbe chiedere con forza due cose semplici e ineludibili: cessare immediatamente gli attacchi indiscriminati, e aprire un negoziato che metta al centro la protezione dei civili e il rispetto del diritto internazionale. Finché la risposta alle critiche internazionali sarà il linguaggio delle minacce e il ricorso alla forza, ogni parola sulla “sicurezza” rischia di suonare come un paravento per una politica che continua a uccidere.