Jaber al-Attar, medico di 51 anni che vive nel nord della Striscia di Gaza, aveva accolto con sollievo la notizia del cessate il fuoco tra Israele e Hamas, che avrebbe dovuto porre fine a due anni di bombardamenti incessanti.
Ma appena quattro settimane dopo l’annuncio, mentre si stava recando al lavoro all’ospedale Al-Awda di Nuseirat, ha ricevuto una telefonata: sua figlia Maysaa era stata uccisa dal fuoco di un drone israeliano mentre si trovava rifugiata in una tenda.
«Non esiste alcuna sicurezza, non c’è alcuna speranza di poter vivere al sicuro», racconta a The Independent dalla stessa tenda nella zona di Al-Atatra, a Beit Lahia, dove ora vive dopo essere stato sfollato. «Ho passato la mia vita tra difficoltà e miseria».
La figlia di Jaber è una delle almeno 410 persone palestinesi uccise da quando il cessate il fuoco è entrato in vigore il 10 ottobre, secondo il Ministero della Salute di Gaza.
Durante un discorso trionfalistico alla Knesset, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva promesso «pace per l’eternità». Ma per la popolazione di Gaza l’incubo non è finito: quello in vigore è un cessate il fuoco solo di nome.
Oltre ai più di 400 palestinesi uccisi, il ministero della Salute riferisce che 1.134 persone sono rimaste ferite a causa di bombardamenti e colpi d’arma da fuoco israeliani. Almeno tre soldati israeliani sono stati uccisi da miliziani palestinesi, mentre due persone sono morte venerdì in quello che la polizia ha definito un «attacco terroristico a catena» nel nord di Israele.
Le immagini mostrano un paesaggio rimasto invariato dopo due mesi di presunta tregua: palazzi rasi al suolo e famiglie che si aggirano tra le macerie. Le organizzazioni umanitarie continuano ad avvertire che nella Striscia entra una quantità di aiuti largamente insufficiente, mentre Gaza è stretta da mesi in una grave crisi alimentare.
«Dal primo momento, ogni giorno, mattina e sera, ci sono spari e bombardamenti di artiglieria nelle zone gialle e in quelle non gialle. Non c’è serenità. Non c’è nessun altro posto dove andare. Non resta che il luogo distrutto in cui vivevi», dice Jaber.
«Soffriamo ancora oggi. Ci sono colpi pesanti e bombardamenti intensi. Questa è la condizione del nostro Paese: una tragedia che non abbiamo scelto».
La notte più sanguinosa dall’inizio del “cessate il fuoco” è stata quella del 29 ottobre, quando almeno 109 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane durante un attacco notturno. L’esercito israeliano ha dichiarato che l’operazione era una risposta all’uccisione di un soldato delle IDF da parte di Hamas. Il gruppo militante ha affermato di «non avere alcun legame» con l’episodio.
Decine di altri palestinesi, compresi bambini, sono stati uccisi dopo aver attraversato la cosiddetta “linea gialla”, il confine dal quale le forze israeliane avrebbero dovuto ritirarsi in base all’accordo promosso da Trump. Gli abitanti di Gaza affermano però che la posizione di questa linea cambia continuamente, con conseguenze mortali.
L’esercito israeliano sostiene che le sue operazioni, in particolare all’interno della linea gialla, siano «condotte per contrastare minacce dirette da parte di organizzazioni terroristiche a Gaza».
In un episodio particolarmente atroce, due bambini – Fadi, di 8 anni, e Jumaa, di 11 – erano usciti a raccogliere legna da ardere per il padre disabile in sedia a rotelle, a Beni Suhaila, vicino a Khan Younis. Sono stati uccisi da un attacco di droni nei pressi di una scuola che ospitava sfollati.
Le IDF hanno descritto i bambini come «due sospetti che avevano attraversato la linea gialla, svolgevano attività sospette sul terreno e si avvicinavano alle truppe israeliane nel sud della Striscia di Gaza, rappresentando una minaccia immediata».
Israele afferma di aver rispettato i termini del cessate il fuoco e continua a descrivere le vittime dei suoi attacchi come presunti terroristi.
È in corso anche uno scontro sugli aiuti umanitari. Le organizzazioni internazionali denunciano che nella Striscia entra una quantità di aiuti molto inferiore al necessario. Hamas sostiene che il numero di camion autorizzati a entrare sia inferiore a quanto concordato, mentre Israele afferma di rispettare pienamente gli obblighi previsti dal piano di Trump.
Mentre Israele e Hamas continuano a colpirsi reciprocamente, la sofferenza della popolazione civile palestinese prosegue senza sosta.
Dopo la morte della figlia, Jaber racconta di essere crollato psicologicamente: il suo peso è sceso da 100 a 75 chili. «Possedevo tre case, ora sono un senzatetto che vive in una tenda», dice.
Imad Abu Shawish, giornalista freelance di 38 anni, ha visto da vicino l’orrore della Gaza post-cessate il fuoco. Il 22 novembre ha scavato tra le macerie di un attacco aereo israeliano contro un edificio residenziale a Nuseirat, che ha ucciso 11 membri della famiglia Abu Shawish: due coppie sposate e sette bambini.
Solo una figlia è sopravvissuta: Batoul, 19 anni. Imad l’ha estratta viva dalle macerie con le proprie mani.
«Non c’è alcuna sicurezza, nessuna sicurezza», racconta. «La mia vita è cambiata drasticamente. Il mio modo di mangiare e bere è cambiato. Il mio equilibrio emotivo e psicologico è cambiato. Sono ancora sotto shock, profondamente traumatizzato».
Prosegue: «Non so dove mi trovo né cosa sto attraversando. Sono diventato terrorizzato, ansioso, impaurito. Forse perché temo che la guerra possa riprendere in qualsiasi momento e che potremmo essere uccisi».
«Non credo che queste sensazioni spariranno facilmente. Abbiamo bisogno di guarigione interiore e di cure psicologiche».
La popolazione palestinese soffre anche a causa delle dure condizioni meteorologiche invernali, con forti venti e piogge torrenziali che distruggono le tende in cui vivono centinaia di migliaia di famiglie rimaste senza casa.
«Le tende sono tutte allagate», racconta Abed al-Moneim al-Zein, 60 anni, originario del nord di Gaza e ora sfollato a Khan Younis. «Non ci sono abbastanza tende, materassi o coperte».
Suo fratello Ameen, 56 anni, di Beit Lahia, padre di tre figlie, è stato ucciso 19 giorni dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco.
«Ameen amava profondamente la sua città», ricorda Abed. «Sorrideva sempre e partecipava a ogni evento, dalle celebrazioni alle partite di calcio».
«Il luogo in cui si era recato non era una zona gialla. Cercava solo un rifugio dopo aver perso la sua casa. Era una scuola nel centro della città».
«La vita non esiste più», conclude. «Non ci sono beni essenziali. Viviamo nella paura, nella tensione, nell’ansia e nel terrore. La guerra ci ha colpiti oltre ogni limite umano».