Fidatevi. Tra tutti i giornalisti, non solo israeliani, che in questi decenni hanno raccontato la tragedia palestinese, Amira Hass, storica firma di Haaretz, è la più coraggiosa, capace. La più brava. Amira Hass la vita dei palestinesi, con il dolore, la sofferenza, le umiliazioni quotidiane, non l’ha solo raccontata in centinaia di reportage, e in libri, che hanno fatto il giro del mondo e che le sono valsi, più che meritatamente, premi e riconoscimenti internazionali; quella vita Amira l’ha vissuta in prima persona, quando ha deciso di trasferirsi per un lungo periodo in Cisgiordania, attirandosi per questo, anche per questo, l’odio, condito da minacce di morte, da parte della destra messianica e dei coloni pogromisti.
Amira non ha piegato la schiena, ma ha continuato a raccontare, in presa diretta, il dolore ma anche la resilienza dei palestinesi. Mettendo anche in luce le dinamiche interne alle fazioni palestinesi.
Hamas è orgogliosa dei propri “risultati”, ma non ha convinto gli abitanti di Gaza che ne pagano il prezzo
Scrive Hass su Haaretz: “Proprio come le istituzioni ben gestite – governative o non governative – che presentano relazioni periodiche sulle loro attività e prestazioni, Hamas ha appena pubblicato una valutazione del suo attacco del 7 ottobre e delle conseguenze fino al cessate il fuoco siglato due anni dopo.
Come tali istituzioni, Hamas sta presumibilmente pensando agli stakeholder che leggeranno il suo rapporto. Nel documento pubblicato mercoledì – 36 pagine in arabo, 42 in inglese – è chiaro che la popolazione della Striscia di Gaza non rientra tra gli stakeholder. Non può essere considerata partecipe dei risultati e della resilienza descritti nel testo.
Nelle conversazioni con amici e familiari, ma non per la pubblicazione o la discussione con i media israeliani, anche i fedeli sostenitori di Hamas nell’enclave hanno domande sull’attacco e sulle considerazioni che lo hanno motivato. Non stanno ottenendo risposte.
Coloro che non sono sostenitori di Hamas a Gaza, persone che chiedono a Hamas di fare un bilancio di sé stessa, non troveranno alcun accenno a questo nel testo. Troveranno “disprezzo per il loro sangue e la loro sofferenza… un palese ignorare la realtà, un tentativo di convincere la gente che la più grande tragedia nella storia moderna della Palestina e di Gaza è stata una ‘necessità nazionale’ e un risultato storico”, come ha scritto un abitante di Gaza rimasto nella Striscia.
Una donna che ha lasciato l’enclave all’inizio della guerra e ha letto il documento di Hamas conclude che “queste persone non ammetteranno mai i loro errori fatali e non sentiranno mai le sofferenze e le tragedie del nostro popolo, poiché sono insensibili e non hanno coscienza”.
Questi due scrittori non sono mai stati sostenitori dell’organizzazione rivale, Fatah, e non possono essere sospettati di essere filoisraeliani. Entrambi – come tutti i palestinesi e non solo loro – sottoscrivono volentieri la principale impostazione storica del conflitto contenuta nel rapporto: il sionismo come movimento colonialista-colonizzatore, con Israele come entità per sua natura espropriatrice ed espulsiva. Non dimenticano nemmeno per un momento che Israele ha scelto, come politica, di uccidere i loro parenti, amici e vicini, distruggendo le loro case e tutta Gaza.
Ma sono anche tra le non poche persone a Gaza che chiedono che Hamas si assuma alcune responsabilità e non si limiti a crogiolarsi nei propri allori per la “gloriosa attraversata” del confine e per i 20 “risultati più importanti” del 7 ottobre (il che significa che ce ne sono altri), come indicato nel rapporto. Tra i risultati elencati figurano l’isolamento di Israele, la sua disintegrazione interna e il sabotaggio del processo di normalizzazione con i paesi arabi.
Chiunque cerchi voci critiche come quelle sopra citate può trovarle, ma non sono le voci dominanti e certamente non ottengono il posto che meritano nei rapporti dei principali media arabi come Al Jazeera.
A differenza dei gazawi citati sopra che hanno definito le dichiarazioni di Hamas “illusioni”, altri potrebbero rimanere impressionati dalla realtà alternativa che emerge dal rapporto dell’organizzazione, intitolato “La nostra narrazione: Al Aqsa Flood: Due anni di fermezza e volontà di liberazione”.
Con il suo documento, Hamas si rivolge ai palestinesi della diaspora, alla Ummah (il mondo musulmano), termine ripetuto più volte nel rapporto, ai palestinesi della Cisgiordania e al grande movimento di solidarietà a sostegno della Palestina e di Gaza, citato come uno dei risultati raggiunti. Queste comunità ci ricordano che il governo di Hamas a Gaza è percepito come un punto di partenza. Il gruppo continua a lottare per raggiungere una posizione che gli consenta di guidare l’intera nazione palestinese come membro dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che necessita di una riorganizzazione dopo essere stata completamente svuotata di significato dall’Autorità Palestinese guidata da Mahmoud Abbas.
Ma Hamas non intende aspettare che tutto questo sia realizzato. Sta costruendo la propria forza nei luoghi in cui ciò è possibile. Il successo apparente della lotta armata è uno strumento per costruire questa forza.
La “lotta armata”, come immagine speculare della glorificazione degli eserciti ufficiali negli Stati regolari, rimane un ethos fondamentale e una componente vitale nella costruzione del potere politico nelle organizzazioni che ambiscono a tale potere. Questo era vero per i palestinesi e per altre nazioni in altri periodi. Poiché la Umma è un destinatario importante, il testo collega delicatamente questo ethos all’Islam. Chiunque non ascolti le voci di critica e di rabbia a Gaza potrebbe rimanere impressionato dall’elogio del rapporto all’uso delle armi, ignorando le falsità e le contraddizioni del rapporto stesso.
Continuando la lunga tradizione di esagerare il numero di israeliani morti negli scontri militari con Hamas, gli autori affermano che 5.942 soldati israeliani sono stati uccisi a Gaza. Questo numero è attribuito al capo di Stato Maggiore dell’Idf Eyal Zamir.
Nel complesso, secondo i “rapporti medici” citati nel testo, Israele ha subito 13.000 vittime su tutti i fronti (Libano, Cisgiordania e Gaza). Il rapporto è mendace anche per quanto riguarda la coesione sociale di Gaza. Sotto l’ombra dei bombardamenti incessanti, dello sradicamento dalle proprie case, dell’impoverimento e della morte, la società di Gaza ha vissuto fenomeni prevedibili di disgregazione interna, sfruttamento della debolezza e speculazione sulla guerra in dimensioni disperate.
Il testo mente anche quando elogia il rifiuto dei gazawi di arrendersi ai tentativi di espulsione da parte di Israele. La gente semplicemente non poteva andarsene. Chi poteva andarsene ha lasciato l’enclave e molti continuano a fantasticare di andarsene. Questi fatti sono incompatibili con la narrazione.
Una spiegazione fornita dagli autori del rapporto per la scelta della lotta armata rileva un fatto: Israele ha sabotato l’attuazione degli accordi di Oslo continuando a costruire insediamenti. Convenientemente, gli autori omettono di menzionare che negli anni ’90 Hamas era altrettanto determinata a sabotare gli accordi e il percorso di Yasser Arafat, come ha fatto con una serie di attentati suicidi.
Gli autori indicano il 7 ottobre come un capitolo nella storia della lotta armata, ma dimenticano di esaminare i risultati dei capitoli precedenti che non sono riusciti a fermare la conquista del territorio da parte di Israele, che ha fatto esattamente il contrario. Gli attentati suicidi degli anni ’90 sono stati utilizzati da Israele come spiegazione o pretesto per fermare il trasferimento del territorio dell’Area C della Cisgiordania ai palestinesi.
Gli attacchi nel primo decennio del secolo hanno portato alla costruzione della barriera di separazione e alla definitiva separazione di Gaza dalla Cisgiordania. Nel secondo decennio, Hamas e la Jihad islamica non hanno nemmeno cercato di respingere la crescente violenza dei coloni in Cisgiordania e l’espansione degli insediamenti.
L’obiettivo di Hamas – che dichiara impossibile isolarlo e farlo scomparire – è liberare tutta la Palestina o ottenere uno Stato palestinese accanto a Israele? Come nei messaggi che ha inviato fin dalla sua fondazione nel 1987, anche quello attuale è ambiguo e confuso.
Nel rapporto, il tono prevalente è quello della liberazione di tutta la Palestina. In una rassegna storica che inizia nel 1948 e anche prima, si afferma che “il progetto sionista … non ha capito che il suo destino sarà simile a quello di ogni ondata di invasioni che ha preso di mira la nostra terra benedetta e sacra nel corso della storia: sarà espulso da essa o sepolto al suo interno”.
D’altra parte, il rapporto rileva come un risultato positivo il numero crescente di paesi che hanno riconosciuto lo “Stato di Palestina” entro i confini del 1967. Il documento indica ciò che occorre fare per fermare la “giudaizzazione” a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme, ma non fa riferimento a ciò che sta accadendo all’interno dello stesso Israele. In una frase tipica nella sua vaghezza, il rapporto descrive una visione di libertà, liberazione della terra, compresa la città santa di Gerusalemme, e la “creazione del nostro Stato”.
Il rapporto non è necessario per negoziati indiretti o diretti con Israele. La sicurezza di sé che trasuda – reale o falsa che sia – conferma ciò che afferma: Hamas non si appresta a lasciare la scena”, conclude Amira Haas.
Hamas non si appresta a lasciare la scena. I falchi di Tel Aviv gioiscono.