Il mio ricordo di Giuseppe Bertolucci
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Il mio ricordo di Giuseppe Bertolucci

Breve ritratto di un gentiluomo e di un pioniere del cinema italiano. [Marco Spagnoli]

Il mio ricordo di Giuseppe Bertolucci
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Marco Spagnoli Modifica articolo

16 Giugno 2012 - 19.09


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Ho collaborato con Giuseppe Bertolucci quando lavoravo per il canale cinema della Rai su Internet gestito da Rai Net. Loredana Lipperini immaginò con lui delle ‘Lezioni di digitale’ per esplorare le nuove possibilità offerte dalla tecnologia. In seguito ho intervistato Bertolucci in varie occasioni, soprattutto pensando ad alcuni suoi film come ‘Berlinguer ti voglio bene’, ‘Il dolce rumore della vita’ e ‘L’amore probabilmente’.

Questa intervista è stata realizzata in occasione dell’uscita in Dvd di ‘Berlinguer ti voglio bene’ e mi sembra che colga tutta la sua passione e l’amore per il cinema di questo autore.

Sono passati circa venticinque anni da quando Giuseppe Bertolucci, fratello minore di Bernardo e figlio del poeta Attilio, regista al suo esordio e un ancora poco conosciuto Roberto Benigni diedero vita a ‘Berlinguer ti voglio bene’ un film diventato di culto pubblicato in Dvd.

Bertolucci è un appassionato di Dvd senza raggiungere livelli maniacali. “Nel mio privato non sono molto avanzato tecnologicamente, ma resto un semplice utente.” Presidente della cineteca di Bologna oltreché sceneggiatore e regista sia di cinema che di televisione, Bertolucci è da sempre molto attento alla sperimentazione tecnologica. Il suo ultimo film L’amore probabilmente è stato una delle prime pellicole realizzata in digitale. La vocazione di Bertolucci alla sperimentazione, però, proviene da molto lontano, da quando proprio con Berlinguer ti voglio bene – realizzò uno dei primi film con l’audio in presa diretta. Il regista emiliano parla delle sue passioni: il digitale, la conservazione di film e il cinema, “probabilmente”…

Ad un quarto di secolo di distanza, rivedere in Dvd Berlinguer ti voglio bene che impressione le fa?

La stessa che avrei rincontrando un vecchio compagno di scuola. Ti dici: “Ammazza quanti anni sono passati…” E’ come se avessi ritrovato un vecchio diario. Del resto i film sono sempre delle pagine di diario per un regista. E’ un’opera nata a quattro mani insieme a Roberto Benigni che adesso ritorna e che incontro di nuovo con piacere.

…ed è anche un film che ha profondamente influenzato l’immaginario collettivo…

Come tutti i miei film al momento della sua uscita ebbe una considerazione quasi del tutto marginale. E’ un po’ un destino del mio cinema. Del resto era prevedibile: Berlinguer ti voglio bene è un po’ una doccia scozzese. Un misto di comico e tragico. Volutamente abbiamo raggiunto spesso alcuni livelli di guardia di sgradevolezza. All’epoca questo, ovviamente, non ne determinò la fortuna anche se – in seguito – è diventato un film di culto. Ed è anche il certificato di nascita cinematografica di un attore straordinario come Roberto Benigni.

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Una curiosità riguardo l’uscita dell’epoca?

Lo straordinario successo che ebbe in Toscana. Un po’ come accadeva per la compagnie dialettali del bel tempo che fu. Fu anche accolto non troppo male dalla critica. Il suo livello di trasgressione verbale gli ha sempre impedito di essere dato in prima visione e non ha mai incrociato le grandi masse del pubblico televisivo.

Berlinguer ti voglio bene ha segnato molto anche la stagione politica…

Il film descriveva l’esistenza di una minoranza ideologico – antropologica residente – in quegli anni – nella periferia toscana, con i piedi in un passato arcaico contadino medievale e la testa nella grande sbronza ideologica comunista e socialista del Novecento. Il personaggio di Benigni, il Cioni, coniuga l’ancestrale sessualità autoctona con l’utopia ideologica. L’omologazione massmediologica ha rimosso questa minoranza. Il Dvd di Berlinguer ti voglio bene è quindi una sorta di National Geographic di una razza estinta da tempo. E’ un film antropologico più che politico o sociologico.

E adesso questo personaggio viene consegnato alla storia del cinema con una qualità audio video perfetta…

Questo è un elemento interessante, perché una delle caratteristiche di quel film insieme a Ecce Bombo di Nanni Moretti che precedette di sei o sette mesi era proprio la scelta di tornare – dopo tanto tempo – alla presa diretta. All’epoca il cinema aveva escluso questa opzione preferendo di gran lunga il doppiaggio. Quindi, il Dvd consentirà di sentirlo come non è mai accaduto prima nemmeno al cinema. Per imporre la presa diretta al produttore Gianni Minervini ho dovuto faticare e operando non nelle migliori condizioni tecnologiche il suono alla fonte fu comunque abbastanza precario. Qualcosa che il digitale ha certamente corretto.

Questa sua grande ricerca tecnologica nel Dvd trova una consacrazione…

Un riconoscimento. Una sottolineatura di una maggiore presa di identità.

Cosa pensa del processo di memorializzazione messo in atto dal Dvd?

E’ molto interessante. Prima gli studiosi di cinema si basavano molto sui ricordi di quello che avevano visto, poi è arrivato il vhs e, infine il Dvd a conservare la memoria non solo del testo, ma anche di tutto il resto. Una volta i negativi non montati scomparivano, i positivi montati e le copie ormai scadute erano destinate a diventare in moviola le code di altri film. Un po’ come quando i rifiuti organici vengono utilizzati per fertilizzare una rosa…

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E il Dvd consente anche un nuovo confronto con i classici…

Assolutamente sì. Con la cineteca di Bologna abbiamo tracciato una storia del cinema attraverso i cinquanta Dvd più significativi. La storia del cinema inizia ad essere ben rappresentata su questo supporto. Il Dvd è un ottimo strumento per la fruizione di questo cinema meno conosciuto oggi che la nostra generazione ha avuto modo di vedere in sale adibite solo alla proiezione dei classici e dei film d’essai. Un’esperienza, la nostra, cancellata nel 1975 dalla deregulation venuta fuori con l’esplosione delle tv private.

Qual è la sua opinione riguardo le possibilità della fruizione cinematografica nelle sale attraverso il satellite, il Dvd e Internet?

Quando il cinema è nato ha preso in prestito dal teatro la sala e la temporalità, adeguandosi al concetto di appuntamento. Grazie alle nuove tecnologie il cinema può svincolarsi dai ricatti dei legami spaziali e temporali cercando nuovi modelli. Prima la televisione, poi l’home video e Internet hanno spezzato il suo legaccio con il teatro, diventando perfettamente riproducibile. Nel momento in cui la sala non sarà più l’unico luogo di fruizione verranno cambiati anche i parametri stessi del successo. Il digitale ha segnato una grande mutazione della fruizione e del consumo cinematografico. Oggi alla cineteca di Bologna abbiamo un grande problema: nel nostro fondo abbiamo circa ventimila film e diverse migliaia di trailers. Ha senso trasportarli su un supporto di consultazione locale, come il Dvd, quando un domani tutte le cineteche potrebbero essere organizzate in grandi banche dati richiamabili in tutto il mondo attraverso un semplice click?

Il suo film Il dolce rumore della vita era una complessa riflessione sulla maternità…

Come tutte le cose che mi piacciono è un film molto ambiguo e denso di temi diversi e spesso contrapposti. Non è solo una riflessione sulla maternità, ma è anche quello. E’ una pellicola sul teatro, sulla menzogna, sulla verità fino a un certo punto. Sebbene segua uno schema molto classico, Il dolce rumore della vita vuole raccontare sentimenti universali e moderni. La cosa che mi interessava principalmente era quella di proporre allo spettatore una tensione estetica e formale, che fosse fondata essenzialmente sui suoni e sulle immagini.

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Che cosa la ha spinta a volere raccontare questa storia?

E’ sempre un sentimento indefinito quello che sta alla base di un film. I miei sono tentativi di cercare di raccontare qualcosa di indefinibile che tale rimane fino al termine della lavorazione. Fino a quando, addirittura, lo spettatore cattura queste emozioni e le fa sue.

Dal punto di vista tecnico, un gioco molto interessante è quello delle inquadrature storte…[/b]

Questa maniera di girare il film è un qualcosa che a me è venuta molto istintivamente e non costituiva affatto un partito preso. Dopo il termine delle riprese mi sono accorto che c’è molta pubblicità che viene realizzata in questa maniera. Un fatto casuale, che deriva forse da un rapporto con il linguaggio espressivo del presente, assai praticato in questo momento dalla pubblicità che – nel bene e nel male – è molto sensibile alla modernità e alle sue istanze.

Una tecnica che arriva al suo culmine soprattutto nel finale aperto…

Un finale terapeutico, dove il figlio della protagonista racconta una storia che non sa essere la sua. Amo molto la fine di questo film dove grazie a una costruzione a imbuto con due parti iniziali quasi di natura mitologica, si arriva a una conclusione dove il confronto tra la madre adottiva e il figlio è soprattutto di natura psicologica. E’ un modo del ragazzo per diventare adulto, grazie a un finale liberatorio che sfugge alla classica presa di coscienza del melodramma e all’agnizione che arriva a noi fino dai tempi del teatro latino. Il mio non è un finale di ricomposizione.

Da alcuni versi di mio padre Attilio Bertolucci “Ancora vita il tuo dolce rumore” e di Sandro Penna: “Io vivere vorrei addormentato entro il dolce rumore della vita”. Due poesie che parlano del dolce rumore della vita e che sono state scritte quasi in contemporanea a centinaia di chilometri di distanza. Una doppia paternità di un verso che fa da titolo di un film che riguarda una doppia maternità.

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