Laboratorio Palestina: le cavie di Israele nell'industria della guerra
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Laboratorio Palestina: le cavie di Israele nell'industria della guerra

Non ha peli sulla lingua Antony Loewenstein. Non li ha nemmeno Moni Ovadia, autore della rabbiosa quanto lucida prefazione di Laboratorio Palestina. Ne parla Antony Loewenstein

Laboratorio Palestina: le cavie di Israele nell'industria della guerra
Antony Loewenstein
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24 Aprile 2024 - 23.03


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di Rock Reynolds

Non ha peli sulla lingua Antony Loewenstein. Non li ha nemmeno Moni Ovadia, autore della rabbiosa quanto lucida prefazione di Laboratorio Palestina (Fazi Editore, traduzione di Nazareno Mataldi, pagg 321, euro 20), un libro-denuncia con il quale Loewenstein, autore ebreo di nazionalità australiana, tocca un nervo scoperto dell’Occidente: quando ci sono di mezzo traffici d’armi e, di conseguenza, fiumi di denaro, le remore morali e i principi del diritto internazionale vanno a farsi benedire.

È l’epigrafe stessa di questo libro – “In solidarietà con i palestinesi e gli israeliani che combattono per un futuro giusto” – a stabilire il principio cardine intorno a cui ruotano le parole di Loewenstein. E, come dice Ovadia, è proprio la sua formazione ebraica (oltre che marxista) a spingerlo da sempre a stare con “gli oppressi, gli sfruttati, i diseredati”. E i suoi studi – e non si può certo tacciare Ovadia di superficialità – lo hanno portato a una decisa presa di coscienza: il sionismo è “un progetto colonialista… che ha sempre mirato a cancellare l’identità palestinese”.

Laboratorio Palestina di Loewenstein indica, dati alla mano, come Israele oggi sia “uno dei dieci maggiori esportatori di armi al mondo”, un elemento non da poco per una nazione così piccola, e come l’Europa abbia incrementato i rapporti commerciali con Israele sotto l’amministrazione di Netanyahu. Antony Loewenstein denuncia la duplicità ormai di lunga data di Israele che, con la scusa di rafforzarsi economicamente e di rafforzare la propria sicurezza, non ha mai avuto particolari freni etici nell’intrattenere relazioni fosche con paesi non esattamente democratici. I traffici svolti da Israele con i regimi totalitari di mezzo mondo, a partire dal Cile di Pinochet, e la scelta di tenere il piede in due staffe, come durante la crisi dei Balcani negli anni Novanta, ne sono la prova. Da ebreo scomunicato dall’ortodossia della sua religione, Loewenstein mette nero su bianco le trame oscure di Israele e la sfacciataggine con cui certe figure – istituzionali o meno – non si preoccupano neppure più di nascondere la polvere del loro razzismo sotto il tappetino della storia e dietro il paravento della rispettabilità. Senza dover citare le sparate quotidiane del ministro ultraortodosso della Sicurezza Nazionale Ben-Gvir – l’ultima è la sua proposta di giustiziare tutti i miliziani palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane per risolvere il problema del loro sovraffollamento – Loewenstein ci ricorda che c’è pure stato chi, come un “consulente israeliano in Guatemala”, ha dichiarato, “Non mi importa di cosa fanno i gentili con le armi. L’importante è che gli ebrei ci guadagnino”.

Laboratorio Palestina è stato pubblicato in lingua originale nel 2023, prima che il conflitto israelo-palestinese imboccasse la china che sta davanti agli occhi di tutti. Abbiamo fatto qualche domanda a Loewenstein e l’autore australiano non ha smentito la sua meritata fama di uomo dalla schiena dritta e di giornalista tutto d’un pezzo.

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Se il suo libro lo avesse scritto dopo il 7 ottobre 2023, sarebbe stato diverso?

«Non particolarmente. Posso tranquillamente rispondere senza temere di rivelare troppo a chi lo sta ancora leggendo o lo leggerà. Era da tempo che temevo il verificarsi di un attacco, lo scoppio di una guerra o che so ai danni di Israele. E, soprattutto, era da tempo che temevo che un’operazione simile da parte di Hamas fornisse a Israele la giustificazione di cui sentiva di aver bisogno per procedere con una gigantesca operazione di pulizia etnica. Il 7 ottobre ha evidenziato gravi fallimenti nei meccanismi dell’intelligence di cui io ero già al corrente, ma certo non avrei mai immaginato la portata di una simile rappresaglia. Direi che la vendetta era nell’aria, un po’ come è accaduto negli USA l’11 settembre 2001. Era come se si attendesse un evento scatenante. Le società utilizzate da Israele a protezione del proprio territorio hanno fallito miseramente, ma la stessa cosa non può dirsi del modo in cui hanno testato le loro armi. E lo hanno fatto usando i palestinesi come cavie. Ne sono testimonianza innegabile due delle più grandi fiere internazionali degli armamenti, quella di Parigi dello scorso anno e quella recente di Singapore. Se avessi scritto il mio libro dopo il 7 ottobre, semplicemente avrei fornito delle spiegazioni di quanto successo.»

Nel suo libro, sostiene che quella di uno stato unico che metta insieme palestinesi e israeliani sia l’unica soluzione. Ne è ancora convinto?

«Sì, ma certo non mi faccio illusioni. Questo è un momento nerissimo. Non ne parlo tanto nel libro, ma chiunque ne parli sa che non succederà, per lo meno non a breve-medio termine. Però, è l’unica soluzione praticabile. Il fatto è che gli israeliani ortodossi temono che Israele finisca per non essere più uno stato a maggioranza ebrea. In Israele, se non sei ebreo, sei trattato come cittadino di serie B da uno stato segregazionista: in altre parole, è apartheid. Ci vuole una totale decolonizzazione. È essenziale. Ci vuole una campagna di riconciliazione nazionale come quella che si è avuta in Sudafrica a partire dal 1994. Deve accadere qualcosa di simile a quanto accaduto in Sudafrica. Non penso che si possano ricacciare molti coloni dalle loro case nei territori occupati. Ovviamente, qualcuno dovrebbe andarsene da quei territoti perché sono zone occupate illegalmente secondo il diritto internazionale. Peraltro, parecchi dei coloni più estremisti hanno doppia cittadinanza e non sono, come pensano in molti, cittadini israeliani provenienti soltanto dall’Europa Orientale. Molti hanno il passaporto degli Stati Uniti oltre che quello di Israele. Per quanto mi riguarda, potrebbero pure tornarsene a casa e non sarebbe un problema per me, dato che trattano i palestinesi come cittadini di serie B.»

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Esiste in Israele una coscienza non sionista?

«Esiste, ma è di minoranza. Io ho vissuto a Gerusalemme Est dal 2016 al 2020 e ho visitato il paese varie volte. La maggioranza degli ebrei israeliani non è favorevole all’autodeterminazione dei palestinesi. La società israeliana oggi è fortemente radicalizzata. La disumanizzazione dei palestinesi viene insegnata agli israeliani in giovane età e non ci sono praticamente più relazioni di nessun tipo tra i due popoli, al punto che, come abbiamo visto di recente, molti soldati israeliani hanno postato su TikTok dei filmati in cui assumono comportamenti non rispettosi verso i palestinesi: magari, ballando e dissacrando le loro case distrutte. Non sono mele marce: è un comportamento molto diffuso. Il bravo giornalista israeliano Gideon Levv ha scritto: “Non ci saranno mai abbastanza palestinesi da uccidere per placare la sete di sangue di Israele”. Solo attraverso un’enorme pressione internazionale si può porre fine al conflitto. Anche nel caso emblematico del Sudafrica, solo la pressione internazionale riuscì nell’impresa. In Israele non c’è una opinione pubblica di maggioranza che ritenga che i palestinesi sono umanamente sullo stesso piano degli ebrei. Per gli israeliani, semplicemente, i palestinesi non esistono. Ci sono molti intellettuali ebrei che vanno dichiarando da tempo che è un genocidio, ma sono la schiacciante minoranza.»

Molti anni fa, il grande inviato di guerra dell’Independent nel Medio Oriente, Robert Fisk, disse che prima o poi gli USA avrebbero ritirato il loro appoggio incondizionato a Israele. Sembrerebbe che non ci abbia visto giusto…

«Il ruolo degli USA al fianco di Israele è vitale da decenni e lo è stato ancor più dal 7 ottobre 2023. Israele non sarebbe in grado di vincere senza l’intelligence, le armi, il sostegno economico e quello valoriale degli USA. Va detto che ultimamente molte armi Israele le riceve anche dalla Germania. Il ruolo di Biden, dei democratici e degli USA è fondamentale. Non voglio nemmeno soffermarmi sul comportamento tenuto da Biden. Qualcuno sostiene che Biden sia davvero stufo dell’atteggiamento israeliano e che abbia realmente a cuore le sorti del popolo palestinese. Ma chi se ne frega se è personalmente solidale e poi nei fatti fa l’esatto opposto. La sua amministrazione va esattamente contro le risoluzioni dell’ONU e, alla fine, fornisce un appoggio aperto a Israele. Temo, anche grazie a fonti bene informate di cui dispongo, che l’attacco israeliano a Rafah sia inevitabile e imminente. Da mesi, sentiamo esponenti dell’amministrazione Biden dire che l’America si oppone fermamente a quel tipo di operazione militare, eppure tutti sanno che ci sarà.»

Perché lei scrive nel suo libro che il 2022 è l’anno in cui Israele ha venduto più armi?

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«Non abbiamo ancora i dati relativi al 2023. Perché il 2022? Perché è in quell’anno che Israele ha beneficiato dei più grossi contratti per forniture di armamenti a paesi come quelli del Golfo, a partire dall’Arabia Saudita. Si tratta di una normalizzazione di accordi stipulati al tempo della presidenza Trump. Buona parte di quei soldi vengono da autocrazie arabe che godono del sostegno degli USA e che maltrattano il proprio popolo: sottomissione, umiliazione, controllo. Verrebbe da pensare che i fatti del 7 ottobre possano aver portato a una riflessione seria, invece ci sono tanti paesi che vogliono disporre delle armi e degli strumenti di sorveglianza testati da Israele nella guerra contro Hamas. L’oppressione di Israele ai danni dei palestinesi viene vista non come un pericolo per la democrazia e la pace internazionale bensì come un esempio pratico da replicare in altri paesi. In India, per esempio l’agenda fondamentalista indù del primo ministro Narendra Modi, è chiara: “Seguire il modello israeliano in Kashmir”. L’India ha il pieno sostegno dell’Occidente in quanto baluardo anti-Cina. Come scrivo nel mio libro, Laboratorio Palestina, Israele guida una coalizione internazionale eterogenea che mette insieme paesi come Svezia, Italia, India, Germania e Arabia Saudita, tra gli altri. Lo stesso presidente francese ha espresso una crescente ammirazione per tale modello di difesa. Il paradosso è che Israele appoggia un’alleanza con paesi in cui l’estrema destra antisemita è al potere o fa un’opposizione significativa.»

Ha mai ricevuto delle minacce per le critiche che ha rivolto a Israele?

«Sì. Scrivo di quei luoghi da vent’anni. Ho ricevuto minacce di morte via sms, lettera, email. Basta dare un’occhiata al mio sito (http://antonyloewenstein.com/letters/), dove ho reso pubbliche alcune di tali minacce. È normale. Ho ricevuto un’educazione ebraica di cui vado fiero, anche se sono un ebreo ateo. Ma, secondo l’ortodossia ebraica, un ebreo non può parlare male degli ebrei.»

Il suo libro è suffragato da dati chiari. Eppure, sono in tanti a cercare di screditarla, accusandola di essere un complottista. Cosa si può fare per spegnere tale campagna diffamatoria?

«La realtà parla da sé e le prove sono evidentissime. Non è assolutamente mia intenzione fare riferimento a presunti complotti internazionali. Alla fine di Laboratorio Palestina c’è un’ampia sezione dedicata a bibliografia e note. Non mi sono inventato nulla. È fuori di dubbio che Israele abbia sfruttato l’occupazione della Palestina per testare i suoi armamenti e poi venderli in tutto il mondo. Si può scegliere di ignorare le prove, ma le prove sono schiaccianti. E lo dimostrano le vendite di armamenti israeliani nelle ultime grandi fiere internazionali di settore.»

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