Il suicidio della pace
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Il suicidio della pace

Il professor Alessandro Colombo analizza la crisi dell’ordine internazionale post-1989, denunciando illusioni occidentali, squilibri globali e un crescente rischio di guerra tra grandi potenze.

Il suicidio della pace
Alessandro Colombo
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6 Giugno 2025 - 00.24


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di Rock Reynolds

Stiamo vivendo una fase travagliata, non particolarmente edificante della storia dell’umanità. Difficile smentirlo. Dalla fine del secondo conflitto mondiale a oggi, forse soltanto la Guerra fredda ha posto la società degli uomini di fronte a un rischio altrettanto forte di una nuova ecatombe internazionale. Eppure, al tempo, teatri di guerra erano terre lontanissime e diversissime dal nostro amato Occidente. Corea, Cambogia e Vietnam, tanto per fare un esempio, avevano un che di alieno e, comunque, la guerra era, per l’appunto, essenzialmente “fredda” e gli scenari apocalittici erano eminentemente appannaggio degli scrittori distopici. Nonostante la posizione egemonica espressa dagli USA subito dopo la caduta di Berlino e ribadita a suon di moniti catastrofici – con la carta della paura sventolata già allora a mo’ di chiamata al riarmo degli alleati, – nella Vecchia Europa le armi avevano smesso di farsi sentire. O quasi. Oggi, pare che non ci sia più nemmeno tale vincolo rassicurante.

Il professor Alessandro Colombo, docente di Relazioni Internazionali presso il dipartimento di Studi Internazionali, giuridici e storico-politici dell’Università degli Studi di Milano, ha raccolto nel libro dal titolo eloquente Il suicidio della pace – Perché l’ordine internazionale ha fallito (1989-2024) (Raffaello Cortina Editore, pagg 333, euro 25) le sue riflessioni sull’attuale momento complicato del pianeta. Abbiamo raccolto alcune sue lucidissime considerazioni che al libro fanno da significativo corollario.

Come vede l’ondata di bellicismo che rischia di travolgere i fragili equilibri europei e, per giunta, di avvicinare il continente a una guerra aperta?

«È chiaro che ciò che sta accadendo rovescia completamente le aspettative maturate in Europa negli ultimi 35 anni. L’Europa si era convinta di essere una volta per tutte al riparo della guerra. Non che di guerre non ce ne siano state. I paesi europei vi hanno preso parte. Noi abbiamo preso parte a diverse di quelle guerra, a partire dalla prima, quella contro l’Iraq, nel 1991. Però quelle guerre avevano tutte in comune il fatto di essere contro soggetti minori, ovvero soggetti che al tempo definivamo stati-canaglia oppure organizzazioni terroristiche, e di essere combattute alla periferia del sistema internazionale. A essere cambiato non c’è solo il fatto che la guerra si è avvicinata, ma pure il fatto che ci riferiamo sempre più spesso all’eventualità di conflitti tra grandi potenze. Almeno in questo senso, si è completamente rovesciato il nostro immaginario come pure il nostro castello di aspettative per il futuro»

Il suo libro si apre con un capitolo dal titolo provocatorio: “Il trionfo illusorio dell’Occidente liberale”. Ma l’Occidente faro di bellezza, democrazia, buon vivere e civiltà che da sempre sosteniamo che esista dov’è?

«L’Occidente è come noi siamo concretamente, come ce lo immaginiamo. L’Occidente liberale degli ultimi 35 anni si deve specchiare non nell’immagine di se stesso che si è dato e che in qualche misura continua a riprodurre, bensì in quello che concretamente ha fatto sul terreno economico, politico, militare. Questo Occidente assomiglia poco a quello immaginario, ma è con l’Occidente reale che ci dobbiamo confrontare.»

C’è un decennio, quello degli anni Settanta, che pare aver segnato il corso della nostra storia contemporanea, indirizzandola in maniera chiara. Perché?

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«Gli anni Settanta sono un anticipazione, un momento in cui cambiano alcune cose importanti. Tanto per cominciare, sono un decennio di rottura sul terreno dell’economia internazionale e segnano le primi grandi crisi del modello di sviluppo economico affermatosi nel Secondo dopoguerra. Sono pure un momento di rottura sul terreno delle culture politiche. Con l’ingresso in una fase di regressione irreversibile della forza di attrazione del comunismo, si va profilando il panorama ideologico in cui ci troviamo tuttora, quello del tecnicismo da un lato e dell’umanitarismo dall’altro. E, anticipando ciò che succederà in seguito, nei primi anni Settanta si registra la prima grande crisi dell’egemonia americana, il primo momento in cui gli USA dopo un secolo di crescita cominciano a temere il proprio declino.»

Quali sono i tratti del Secondo dopoguerra che si riverberano tuttora sul nostro modo di vivere? Che cosa dell’esperienza della Seconda guerra non è stato metabolizzato nel modo giusto?

«Una domanda tosta. Ciò che resta sicuramente del nostro contesto storico è tutto intessuto di istituzioni che abbiamo ereditato soprattutto dalla Seconda guerra mondiale. Quindi, il nostro tessuto istituzionale è ancora quello e credo che questa sia anche una delle ragioni del suo cedimento: un tessuto istituzionale pensato in modo completamente diverso dal nostro e, pertanto, inevitabilmente invecchiato. L’altra cosa che è inevitabilmente cambiata è proprio il nostro rapporto con la guerra, il nostro modo di concepire il rapporto tra pace e guerra che è cambiato completamente per effetto dei due conflitti mondiali. E ancor oggi ci troviamo sempre più confusamente al suo interno.»

Lei sostiene che il calo dell’attrazione della più grande ideologia del secolo scorso, il comunismo, sia stato uno degli elementi che hanno contribuito a imporre il modello americano nel mondo. Pensa che il militarismo sovietico sia in qualche modo corresponsabile con quello americano di ciò a cui assistiamo oggi, ovvero una enorme e superficiale sottostima dei rischi di un coinvolgimento della vecchia Europa in una vera e propria guerra?

«In realtà, non esagererei su questa continuità. Ci troviamo in un contesto totalmente diverso da quello della seconda metà del Novecento, quando le due superpotenze, le due ideologie concorrenti, con i rispettivi apparati militari, si confrontavano e si alimentavano reciprocamente. Oggi, è bene ricordarlo, ci troviamo in una situazione estremamente squilibrata. Non c’è una contrapposizione su un piede di parità, per esempio in Europa, tra gli USA e la Fedezione Russa, quest’ultima un attore minore rispetto agli Stati Uniti. Non c’è più, dunque, lo stesso tipo di reciprocità competitiva della seconda metà del Novecento.»

Il 1979, se ho capito bene, è l’annus horribilis, lo spartiacque tra un sistema postbellico e un nuovo ordine all’insegna del liberismo ed edonismo reaganiano, dell’intransigenza di figure come la Thatcher e Papa Wojtila. Come lo riassumerebbe?

«Io continuo a pensare che la vera cesura sia dieci anni dopo, nel 1989. Il 1979 è un anno spia, ovvero un anno nel quale convergono una serie di linee di tendenza che nel complesso stanno già erodendo l’ordine internazionale postbellico e che, dieci anni più tardi, lo stravolgeranno del tutto con la scomparsa dell’Unione Sovietica. Il 1979 è un anno spia del cambiamento della cultura politica euroccidentale, con la vittoria elettorale di Margaret Thatcher, il profilarsi della vittoria di Ronald Reagan, l’elezione al soglio pontificio di Karol Wojtyla e un cambiamento totale del paesaggio politico e ideologico del Novecento dell’Europa e degli USA. È stato pure l’anno della rivoluzione islamica in Iran. E quello dell’invasione sovietica dell’Afghanistan che, con il senno di poi, sappiamo che avrebbe dato un forte impulso al fallimento e alla disgregazione dell’Unione Sovietica. È l’anno della tragedia dei “boat people”, momento culminante della perdita di attrazione (soprattutto in Italia) dell’ideologia comunista e della sostituzione dell’immaginario rivoluzionario del Novecento con quello umanitario che gli sarebbe succeduto. Si intravede ciò che si andava preparando da anni, ovvero uno spostamento dell’asse delle relazioni internazionali dalla contrapposizione Est-Ovest alla contrapposizione tra ciò che resta dell’egemonia secolare dell’Occidente e la contestazione degli altri.»

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Gli anni Novanta segnano la fine formale della Guerra fredda, dando al mondo l’illusione dell’apertura di una nuova stagione, simbolicamente rappresentata, dopo il crollo del muro, dalla scarcerazione di Nelson Mandela? Cos’è che non è andato per il verso giusto?

«Come si nota nel mio libro, sono molto severo nei confronti degli anni Novanta, anni di fondazione del progetto di nuovo ordine mondiale, ma pure anni in cui tale progetto ha accumulato dall’inizio una serie di ambizioni eccessive, di forzature, di amnesie storiche che lo hanno condannato molto presto al declino. Gli anni Novanta si sono sviluppati all’insegna di una retorica e, per certi versi, anche di una fiducia nella possibilità di cambiare le relazioni internazionali alle radici. Possiamo dire che non soltanto non sono cambiate alle radici, ma che si è pure dilapidata una condizione di superiorità che, nel caso americano e in quello europeo, non aveva precedenti. Continuo a insistere che è questo il vero rompicapo politico, storico e, perché no, anche teorico degli ultimi 35 anni. Negli anni Novanta, gli USA avevano una superiorità nei confronti degli altri paesi che nessuno aveva mai avuto prima in tutta la storia moderna. In dieci anni, hanno dilapidato tutto. Questo significa che nulla è andato per il verso giusto.»

Lei sostiene che la moltiplicazione dei confini in un “mondo senza confini” è stata una catastrofe. Un giornalista inglese scriveva pochi anni fa che era ora di abbattere i muri e che solo governare il fenomeno di un’immigrazione in Europa (soprattutto dall’Africa) avrebbe potuto evitare un’apocalisse. Lei come la vede?

«Faccio fatica a risponderle perché quel processo, entro certi limiti, non è governabile, nel senso che nasce da squilibri obiettivi che è molto difficile arginare oppure organizzare nella loro totalità. Una delle ragioni per le quali è stato molto difficile a livello europeo trovare una posizione comune al riguardo è il fatto che non tutti lo subiscono nella stessa misura. E non tutti collocano il problema al medesimo posto nella loro gerarchia di preoccupazioni e interessi. Da questo punto di vista, la guerra in Ucraina aumenta ulteriormente tale divaricazione di prospettive, per esempio, tra l’Europa Meridionale e l’Europa Centrosettentrionale. Quindi, questa è una spiegazione, fatto salvo un processo che ha a che fare con mutamenti demografici di carattere davvero epocale e con una serie di questioni che hanno una portata storica che, a mio avviso, trascende di molto la capacità di regolazione di singoli attori.»

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Il peccato originale della società globale va ricercato nella fine della Seconda guerra, quando le potenze vincitrici e, in particolare, USA e URSS, si spartirono sfere di influenza?

«La società globale in realtà nasce da una stratificazione di processi storici come quello di lunghissimo periodo dell’espansione, da un lato, del cosiddetto “sistema capitalistico mondo” e, dall’altro lato, di quella che viene definita l’espansione della società internazionale europea. L’altro grande elemento che ci porta alla situazione in cui ci troviamo è l’ordine internazionale nato dopo la fine della Seconda guerra mondiale: non tanto la divisione del mondo in due sfere di influenza quanto la riscrittura dell’ordine politico ed economico internazionale a guida essenzialmente americana, a partire dalla fine della Seconda guerra. È lì che si pongono le premesse per la creazione di un’economia internazionale aperta, per l’aumento di quella che fino a qualche decennio fa si definiva interdipendenza economica, per lo sviluppo delle grandi organizzazioni internazionali con le quali abbiamo a che fare tuttora e per l’esplosione del commercio internazionale. Per non parlare dell’aspetto tecnologico che ha consentito l’infittirsi delle interdipendenze.»

Come vede la comparsa di Trump sullo scacchiere internazionale? Qualcuno lo ha salutato come una sorta di premio Nobel per la pace in pectoris. Condivide i miei dubbi?

«Forse, l’Europa si è esposta in modo un po’ ingenuo a sostegno del candidato democratico. Ma credo che ciò sia secondario. Cercherò di rispondere con franchezza: io un presidente americano pacifista nella mia vita, peraltro neppure brevissima, non l’ho mai visto. Non so quanto poco pacifista possa rivelarsi Donald Trump, ma il curriculum dei presidenti americani precedenti non lascia ben sperare. Però, Donald Trump non è un pacifista. Ha una preoccupazione diversa da quella che sembrava – anche se non ne sono del tutto sicuro – al centro dell’amministrazione di Joe Biden. Paradossalmente, è più simile a quella che ha informato l’amministrazione di Barack Obama. La preoccupazione di Donald Trump non è ovviamente portare la pace, bensì diminuire gli impegni degli Stati Uniti. Ed è solo per questa ragione che credo che qualche osservatore si sia spinto a pensare che Trump potesse operare come “pacificatore” nelle due guerre attualmente in corso. Non per qualche ragione umanitaria o pacifista ma per una pura e semplice motivazione di carattere strategico, cioè l’idea che queste due guerre non sono nell’interesse americano e che, anzi, rischiano di allontanare gli Stati Uniti dall’unica cosa che, secondo Trump, interessa agli Stati Uniti, ovvero la competizione con la Cina.»

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