di Rock Reynolds
Pensare che la storia insegni qualcosa è sempre più una chimera, se non una malsana e malriposta convinzione che serve solo a mettersi il cuore in pace e a illudersi che il domani sia più roseo. Noi europei lo sappiamo bene, perché, pur piccandoci di essere il continente nobile per antonomasia, sorvoliamo troppo spesso sul passato violento che lo ha sconvolto a più riprese.
Ecco che, in un momento in cui nell’Est Europa imperversa la guerra fratricida tra Ucraina e Russia – fratricida perché Putin ha a più riprese dichiarato che non v’è distinzione tra i due popoli – e nel non tanto lontano Medio Oriente la sedicente unica democrazia di stampo occidentale dell’area nega una terra a un popolo diseredato e reietto, può fare comodo un libro snello e lucido come Le vie delle guerre (il Mulino, pagg 290, euro 16,00) dell’archeologo ed espero di storia militare Andrea Santangelo.
Partendo dal triste assunto secondo cui la guerra «è stata “fedele compagna”» degli europei «per millenni e prima o poi tornerà a trovarli», Santangelo ci accompagna in una esaustiva carrellata di eventi bellici e relative trasformazioni del territorio e degli stili di vita, dagli albori della società europea ai giorni nostri, ricordandoci che «la guerra è inscindibilmente connaturata all’uomo e affonda le sue radici addirittura nel paleolitico. È il massimo fattore di cambiamento che l’umanità sperimenti: con essa muta la tecnologia, la società, la politica, l’economia e la cultura».
Nel secolo scorso, i cambiamenti hanno portato a incredibili salti in avanti: nel 1939 gli eserciti combattevano ancora a cavallo e nel 1945 la prima bomba atomica aveva già fatto scempio della civiltà.
Non tutti sanno che i due luoghi che più hanno visto succedersi conflitti, battaglie e scaramucce al mondo sono due pianure oggi fortunatamente frequentate per lo più da turisti e non da armate belligeranti: quella fra Belgio e Francia e la Pianura Padana. Naturalmente, non mancano in nessuna delle due attrazioni architettoniche che devono la loro esistenza a esigenze difensive del passato e musei attinenti alla storia militare del luogo. Anche sotto questo punto di vista, Le vie delle guerre può essere visto come un utile ausilio per chi dovesse intraprendere un viaggio diverso e soffermarsi in luoghi che sono stati teatro di grandi violenze e di passaggi storici fondamentali.
Ecco spiegato perché Santangelo dà all’Europa il merito di aver saputo mantenere negli ottanta anni trascorsi dalla Seconda guerra un ordine all’insegna, tutto sommato, della pace. Le devastazioni recate da tale conflitto continuano in qualche modo a fare da sano deterrente, anche se i venti di guerra che mai si vorrebbe che alitassero sul nostro continente si stanno facendo sempre più insistenti e feroci.
Per dare un senso alla storia militare europea, l’autore ci illustra il concetto di limes romano, più che un semplice confine proprio perché quel tipo di territorio ha sfumature diverse e vanta incroci di culture che i romani, pur nella loro insaziabile voglia di conquista, erano soliti sfruttare con acume: è forse quello il «maggiore lascito culturale: includere per dominare militarmente».
Passando attraverso la caduta dell’impero, le invasioni barbariche e poi la stagione delle campagne militari europee degli arabi e dell’impero ottomano, Santangelo ci accompagna in un viaggio che racconta le trasformazioni radicali che certi luoghi hanno subito e l’abbondanza di risorse e ingegno che l’uomo ha profuso in costruzioni e armamenti. Fortunatamente, talvolta persino le nefandezze hanno qualche sfumatura luminosa e, per favorire campagne militari e spostamenti di truppa, l’Europa si è progressivamente dotata di infrastrutture che hanno fatto comodo anche alla vita civile.
Come in molti altri campi, anche nella guerra c’è un prima e un dopo: l’avvento delle armi da fuoco è lo spartiacque, con una crescita esponenziale, soprattutto nel Cinquecento e Seicento, del numero di morti anche fra i civili, sempre più terrorizzati dal passaggio di enormi eserciti con relativi saccheggi, stupri, uccisioni scriteriate, devastazioni e malattie infettive. È con la Guerra dei trent’anni (1618-1648) che l’Europa conosce un conflitto continentale come sostanzialmente non ne aveva mai visti prima, con «immani conseguenze in termini di perdite umane, di instabilità politica e sociale» e grandi stati nazionali che si dotano di eserciti enormi.
Se l’architettura militare cambia, adeguandosi alle nuove esigenze di una guerra in costante trasformazione tattica, servono grandi architetti con competenze militari e le grandi monarchie europee se li contendono. È proprio dopo la Guerra dei trent’anni che emergono le figure contrapposte, quasi circonfuse da un’aura di assurdo misticismo, del barone Mennon van Coehoorn delle Fiandre, alfiere di «fortificazioni… meno durevoli, ma più facili da costruire e riparare» e del francese marchese di Vauban, che organizza tra Francia e Paesi Bassi un sistema di fortezze a intervalli regolari, una sorta di precursore ideale della Linea Maginot.
Ma sarà l’avvento dell’intelligenza strategica e del carisma personale di Napoleone a sconvolgere nuovamente il concetto di guerra e a farne un elemento costante del successo politico. I numeri indicati da Santangelo sull’esperienza della guerra napoleonica lasciano a bocca aperta: «si stimano quattro milioni e mezzo di morti totali, di cui il 70% militari e circa un milione e duecentomila francesi». La grande novità apportata da Napoleone è il concetto di meritocrazia, fino ad allora sconosciuto per i militari francesi, sempre dominati dal sangue e dal lignaggio, la prelazione data all’artiglieria e la rifondazione di un esercito in unità più mobili e rapide.
Si diceva che ci sono luoghi che oggi i turisti amano visitare per la loro bellezza e il cui suolo è stato macchiato dal sangue di centinaia di migliaia di soldati mandati inutilmente al macello. La valle del fiume Somme nel nord della Francia e le Dolomiti italiani ne sono un esempio eclatante: vi si combatté un’estenuante e inumana guerra di trincea.
Pare che in totale ne siano stati scavati 42.000 chilometri circa, pari alla circonferenza del globo. Sarà la fine di un’idea pubblica di guerra etica e nobile, dell’entusiasmo dell’arruolamento per servire la patria da parte di milioni di giovani che «non sanno a quale inferno stanno per andare incontro», un inferno fatto di cunicoli maleodoranti e terre di nessuno dominate dal filo spinato. Alla fine, la Grande guerra presenterà un conto salatissimo: quasi dieci milioni di militari e quasi sette milioni di civili morti, con l’ecatombe della battaglia insensata di Verdun, monumento alla stupidità e all’osceno narcisismo dei comandanti supremi.
Dulcis in fundo, si fa per dire, la Seconda guerra mondiale, con l’uso massiccio dei bombardamenti aerei sulle città, una strategia che mira a fiaccare il morale della popolazione e a spingerla a togliere sostegno al proprio governo più che a recare reali danni alle infrastrutture militari. La descrizione minuziosa e lucidissima dei bombardamenti devastanti di Amburgo e Dresda affascina e atterrisce al tempo stesso.
Erano stati i tedeschi a usarli per primi nella Guerra di Spagna e, per una fosca ironia della sorte, tale strumento di devastazione si ritorse contro di loro. Il conto dei morti nei bombardamenti a tappeto a cui l’aviazione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna (quest’ultima con pochissime remore, dopo gli attacchi tedeschi a molte città, a partire da Londra) sottopose la Germania verso la conclusione del conflitto raggiunge quota 600.000. Anche in questo caso, la modalità degli “urbicidi” è scientificamente agghiacciante: un’ondata di bombardieri sgancia ordigni esplosivi e poi una seconda ondata lascia cadere ordigni incendiari, creando apocalittici effetti risucchio nell’aria.
E così si arriva alla bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki. Ma è un altro continente ed è un’altra storia.